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L’estate, per chi resta in città vuote (sempre meno, a dire il vero) e con un loro particolare e straniante fascino, è l’ideale per serate all’insegna del ripescaggio di vecchie pellicole.
Classici o oggetti di culto, vecchi gialli, western, horror. Ne abbiamo scelti dieci tra quelli che potete trovare in programmazione. Ci siamo capiti, non film che hanno una diretta connessione con la stagione più calda, perciò no Milius, no Vanzina o Risi, no Zurlini o Citti (anche se poi, magari, capolavori come “Un mercoledì da leoni”, “Estate Violenta”, “Il sorpasso” o “Casotto” pure ce li ripassiamo), ma opere che accentuano il distacco dalla quotidianità della parte restante dell’anno riportandoci a quando eravamo ragazzi e battevamo le sale di periferia per beccarci i film di Bruce Lee, di Dario Argento, di George Romero, o restavamo a casa imparando dalla tv i basilari del western da Ford e Hawks (più tardi da Pekinpah e Clint).
L’estate è anche questo, o dovrebbe esserlo, una pausa di riflessione, un momento onirico, una sospensione stordente all’insegna del deja vù. Buona visione.
10 cult movie da riscoprire
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CONVOY
Considerato uno dei peggiori film di Sam Pekinpah (che lo gira da strafatto e dipendente dall’alcol), tranne che da me e Tarantino, “Convoy“, del 1978, è il trait d’union tra certe pellicole anarcoidi della Nuova Hollywood (“Sugarland express” e “Duel” di Spielberg, “Vanishing Point” di Serafian) e certi film di cassetta con protagonista Burt Reynolds in versione spaccone americano.
Qui, l’uomo che incarna i valori pekinpahiani è Kris Kristofferson, cowboy con il camion al posto del cavallo, anarcoindividualista, refrattario alla politica come al sindacalismo, fiero avversario della legge, che trova la sua controparte in Ernest Borgnine, in qualche modo un suo doppio per cazzutaggine e senso della sfida.
C’è spazio anche per l’elogio di un’America selvaggia, fatta di uomini – e donne (anch’esse alla guida di enormi autocarri)- che la attraversano quasi senza una vera meta, per il puro e semplice gusto della libertà, politicamente scorretta, antica ma avversaria del razzismo e del potere costituito (compreso quello del politico progressista di turno) e capace di una solidarietà spontanea (come quella che vien fuori nel finale de “Il Mucchio Selvaggio”).
Non date retta ai critici, d’estate vi intrattiene per poco meno di due ore con inseguimenti in lungo e largo per Arizona, New Mexico e Texas e una sua poetica da working class heroes.
2. DISTRETTO 13, BRIGATE DELLA MORTE
Pellicola del 1976 di John Carpenter, è il tipico film che ti spari di sera d’estate se hai avuto 15 anni ai tempi in cui Freccero curava la programmazione di Italia Uno, anche se con la stagione dei bagni, dei tuffi e dei secchielli non intrattiene alcun colloquio.
Film con trama scarna, direbbe un seguace di Nolan, “prevedibile”, in realtà, come potrebbe spiegare Tarantino, dimostra che nel cinema spesso non ce ne fotte un cazzo della storia, che poi è quella di “Rio Bravo” di John Ford, la madre di tutti i film di assedi, nella fattispecie di pellerossa, qui sostituiti da gang di giovani sanguinari metropolitani senza alcuno scopo o velleità ideologica. L’unica cosa che conta, in certe pellicole, è la tensione, l’atmosfera unica che sa creare con pochi denari solo gente come Carpenter (o Walter Hill o George Romero, col suo “La notte dei morti viventi”, altro assedio, stavolta di zombi, ma le tribù di “Distretto 13” non sono più vive).
E nemmeno importa, anzi è perfino un merito, che a volte reciti in questi film qualche attore cane o comunque con una sola espressione del volto, che sarà dimenticato da tutti, madre compresa. Ma non da chi ha amato quell’opera. Carpenter farà forse di meglio, entrando definitivamente nel mito, con “1997 Fuga da New York” e una sfilza di attori coi controcazzi, da Kurt Russell a Isaac Hayes, da Harry Dean Stanton a Borgnine, restando però in tema (la metropoli prigione, il nichilismo).
Eppure la ruspanteria di “Distretto 13”, le sue musiche in bilico tra le soundtrack dei polizieschi dei ’70 e la più gelida e sintetica new wave – poche note ma che ti inchiodano al deserto delle strade di una soffocante L.A., ad opera dello stesso Carpenter – nonché alcune scene di cazzimma unica, come l’uccisione di una bambina davanti a un gelataio senza un perché, sono già un passepartout per l’immortalità per l’autore di “La cosa”, “Halloween”, “Starman”, “Christine la macchina infernale”.
3. I TRE VOLTI DELLA PAURA
Che nesso c’è tra lo scrittore Alberto Bevilacqua e i Black Sabbath? Il nesso c’è e ha un nome, quello di Mario Bava, maestro dell’horror nostrano e non solo. Antesignano del cinema pulp, inventore dell’horror comico, ecc… Del film “I tre volti della paura“, con Boris Karloff, l’autore di “La califfa” è, col regista Bava, lo sceneggiatore.
La pellicola, nei cinema inglesi e americani col titolo di “Black Sabbath”, è tratta da tre racconti, uno forse di Snyder (in realtà più di Bevilacqua), gli altri due di Tolstoj e Cechov. Ebbe scarso successo quando uscì, nel 1963, ma è diventato col tempo un oggetto di culto, ispirando il nome della band di Tommy Iommy e Ozzy Osbourne.
Grande senso cromatico e per le luci, una buona tensione, un enorme Karloff, un pallino per l’erotismo (che troveremo anche in altri film di Bava) e perfino una storia di nemmeno tanto dissimulato lesbismo, sono tutti ingredienti che ne rendono appetibile la visione. Finale assai divertente (metacinematico, direbbero quelli bravi). È su Prime Video.
4. LA MASCHERA DEL DEMONIO
Ancora Mario Bava, si. Perché è stato un vero maestro. E “La maschera del demonio“, 1960, è un gioiello dell’horror visto e rivisto da Tarantino, Burton, Coppola, Carpenter, Argento. Con pochi denari, Bava, come evidenzia Scorsese, confeziona atmosfere allucinate e proietta lo spettatore nell’onirico puro, nella perdita di senso della realtà.
Capolavoro gotico, necrofilo, con qualche momento di erotismo che in Bava non manca mai, è un capostipite dell’horror italiano e crea, con l’Hitchcock di “Psycho” (stesso anno), l’alternativa alla Hammer e ai suoi horror barocchi. “La maschera del demonio” è su Prime, per ora…
5. KING OF COMEDY
In questa estate del 2023, in cui ci ha lasciato, non potevo non omaggiare Robbie Robertson. “King of Comedy” (“Re per una notte”) è il film che vedi e rivedi ed impari sempre qualcosa di nuovo. È indubbiamente uno dei capolavori dello zio Marty. Dentro c’è un De Niro gigantesco e un Jerry Lewis mai visto.
Un film che angoscia, potente, che gareggia con le maggiori e più disturbanti pellicole dei maestri italiani (non so perché mi viene in mente Risi e “Il sorpasso”, non credo solo perché è estate, anche se Gassman / Bruno Cortona non è De Niro / Rupert Pupkin). Ispirerà peraltro “The Joker” di Todd Phillips (dove il De Niro conduttore tv è una palese citazione/omaggio). Il cinema, praticamente.
Soundtrack prodotta da Robertson che, credo, abbia personalmente scelto anche le canzoni – Rickie Lee Jones, BB King, Talking Heads, Ric Okasec, ecc…, più una bellissima “Beetween trains” dello stesso Robbie (con Richard Manuel e Garth Hudson della Band) ispirata dalla improvvisa morte per meningite di un assistente di Scorsese.
6. I VIVI E I MORTI
Veniamo alla Hammer, la mitica casa specializzata in horror barocco, che con le sere d’estate ci sta una delizia, garantito. E veniamo soprattutto a Vincent Price. Che nel 1960 è al servizio di Roger Corman per questo “I vivi e i morti” (“House of Husher”) che è un capostipite dell’horror cormaniano (sappiamo che Corman si cimentò con diversi e distanti generi).
Un tripudio di colori, in cui domina il rosso, Edgar Allan Poe (da cui il film è tratto), la sceneggiatura di Richard Matheson e, soprattutto, una storia che allude a un rapporto incestuoso, sono gli ingredienti di quest’opera. Che però, con tutto il rispetto per il grande Corman, è da ricordare soprattutto per l’interpretazione sublime di Vincent Price, che lambisce l’istrionismo ma senza mai sprofondarvi e ancora una volta si immortala. Mitica la sua mise. Un gigante. (Il film è su Prime o Sky, non ricordo).
7. L’ULTIMO UOMO DELLA TERRA
Price, Price, Price!!! “L’ultimo uomo sulla terra” è un film italiano del 1964, regia di tale Ubaldo Ragona, con Vincent Price a fare il sopravvissuto, trasposizione cinematografica del noto romanzo “Io sono leggenda” di Richard Matheson.
Un horror fantascientifico povero, cioè fatto con quattro lire, come si soleva fare in Italia, ma anticipatore di un filone, quello dei film sugli zombie. Romero deve averlo visto e tratto ispirazione per il capolavoro “La notte dei morti viventi”, di pochi anni dopo. Delle trasposizioni del libro (ce ne sono state altre, cito “Occhi bianchi sul pianeta Terra”, con Charlton Heston del ‘71, e il più recente “Io sono leggenda” con Will Smith, del 2007) è la più fedele. Girato all’Eur di Roma, ha al suo centro, e non poteva essere diversamente, Vincent Price. Anche qui, grande interpretazione. Film notevole, anche se la critica ne parla come di un’opera trascurabile. È su Prime.
8. JOHNNY IL BELLO
“Johnny il bello” (“Johnny Handsome“) è considerato un film minore di Walter Hill. Eppure… Eppure qui, a compensare una storia “essenziale”, c’è una New Orleans inedita, poco folclorica eppure molto sudista, una galleria di attori importanti, da Forest Whitaker che fa il medico buono a Morgan Freeman nelle vesti del poliziotto cinico, senza dimenticare Ellen Barkin troissima e Lance Henriksen umanamente zozzissimo e senza contare la colonna sonora di Ry Cooder.
Ma su tutto, spicca un grande Mickey Rourke, attore la cui bravura ci era stata mostrata già in “L’anno del dragone” di Cimino e “Rusty il selvaggio” di Coppola. Ce ne dimenticheremo colpevolmente per poi riscoprirlo in “The Wrestler” di Aronofsky, di cui il noir di “Johnny il bello” è un po’ un’anticipazione, un assaggio, se non altro di cosa sarà Rourke davvero.
Non più l’attore belloccio di “Nove settimane e mezzo” e “Angel heart” ma un derelitto dalla faccia deforme, una sorta di Elephant man calato nell’urbe spietata, la “sin city” dove il fratello fotte il fratello. Ho letto che qui Hill sarebbe sotto tono in quello che appare essere il suo forte, cioè la regia, specie quella delle scene d’azione e di violenza. Bene, devo aver visto un altro film. Perché la rapina iniziale lascia davvero senza fiato.
Il seguito prende una piega più riflessiva e c’è la vita della fabbrica, alcuni dialoghi amorosi, gli incontri col dottore progressista, una serie di dimostrazioni che Hill non è solo parolacce e sparacchiamenti, anche se predilige storie semplici, greche, stradaiole, potremmo dire springsteeniane (ricordando un altro film di Hill, quello “Streets of Fire” che rubava il titolo a una canzone del Boss).
9. PAPILLON
Ci sono film che ci hanno salvato. O rovinato. Io mi ricordo. Si, mi ricordo, l’urlo liberatorio e l’applauso – come si fa bizzarramente ora ai funerali – alla fine del film. Quando McQueen esclama “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!“.
E mi ricordo l’eccitazione di tutti in sala, anche se oggi il film viene ritenuto troppo lungo, ed è vero: ha qualche momento di stanca, indubbiamente. Regia di Franklin J. Schaffer, reduce da “Il pianeta delle scimmie” e “Patton”, sceneggiatura del trotzkjista Dalton Trumbo, quello di “Spartacus” di Kubrick (perseguitato ai tempi del maccartismo), “Papillon” è un classicone, per alcuni invecchiato male, per altri un inno alla libertà in linea col tardo hippysmo dell’epoca. Rivisto però pochi giorni fa, ragazzi, funziona ancora.
McQueen, stratosferico, forse la sua maggiore interpretazione, sovrasta perfino Dustin. Che qui fa già le prove del lavoro che farà con “Rain man”. L’incontro coi lebbrosi è commovente. Il finale del salto dalla scogliera di McQueen/Papillon, naturalmente eseguito senza controfigura, immortala l’attore più figo di tutti i tempi. Si, più di Paul Newman.
Durante le riprese, svolte in Giamaica, si fumo’ molta Maria e Dustin e Steve furono ospiti una sera di Paul e Linda McCartney. Nell’occasione Paul, sfidato da Hoffman a scrivere una canzone al momento sulla base di una frase letta da qualche parte, partorì “Picasso’s last words (drink to me)”, che è su “Band on the run”. Correva l’anno 1973 e Hollywood aveva virato verso il pessimismo, le atmosfere cupe e inquiete, carceri speciali, squali assassini, aerei che cadono…
10. CANI ARRABBIATI
Concludiamo con un altro Bava: “Cani arrabbiati”, thriller del 1974 con Maurice Poli, Lea Lander, George Eastman e Don Backy. Lo potete vedere in tv su Prime, anche se nella sua versione rimaneggiata di parecchi anni dopo, con commento sonoro indegno (anche se, credo, del maestro Stelvio Cipriani).
Questo è un film su cui Tarantino è andato fuori di testa e vedendolo capirete perché, senza che leggiate in giro i manuali che ne parlano come di un “precursore del cinema pulp”. Una rapina, un lungo inseguimento, buona parte della pellicola girata dentro l’abitacolo di un’automobile. Don Backy e George Eastman in fondo perfetti nelle vesti di due criminali psicopatici anche un po’ dementi. Fa caldo, molto caldo, mentre il film viene girato sull’autostrada dalle parti di Civitavecchia. E si vede anche nel film.
Violenza, anche abbinata al sesso. Una umanità merdosa e senza scampo. La filosofia (anche politica) di Bava c’è tutta e ciò gli consente di dribblare la inclinazione destrorsa delle pellicole dello stesso genere, in Italia e negli Usa: il mondo è un inferno che si svolge dentro un’auto (negli anni ’70 le auto in Italia si consolidano come status symbol, sia pure transitando dalla categoria delle cose che devono durare all’usa e getta).
Il denaro è lo sterco del diavolo, come dimostra anche la non uscita del film, all’epoca (per le vicende legate al fallimento della società Loyola Films; ne potete leggere in rete), che fu riesumato solo dopo vent’anni.
* Articolo pubblicato precedentemente, con differente editing, ad agosto 2023
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