Il tifoso interista è confuso dall’elogio della sconfitta dopo la finale di Champions League contro il Manchester City: sostituisce la poesia del “tragico”, peculiare del biscione.
Dostoevskij è interista
Cara Inter, ti ameremmo anche se tu vincessi. Hai perso con onore e così non ti riconosco più. Una volta perdevi male, anzi: tragicamente. Tutta questa dignità tipica del tremendismo granata è una nuova identità che attrae e confonde, sostituendosi alla poesia peculiare del biscione.
Diversamente sarebbe culto dei morti, è vero, del resto la fine dell’era Moratti è stata la nostra Superga, c’è da esser lieti di assomigliare al Toro nonostante il tentativo contiano di ibridazione gobba, sventato solo dai nuovi pseudo Gresko alla Lukaku ieri e nella finale di Europa League di tre anni fa, diversamente incapaci di vincere e anche per questo profondamente interisti. Perché questo è l’interismo, giurare amore non in virtù delle vittorie, ma nonostante queste, lungamente sparute.
Cara Inter, alla testa alta di chi combatte fino all’ultimo, come un indomito guerriero, preferisco la testa recisa della sventura d’artista, senza fine e senza posa. Preferisco l’abisso della fede che finisce in un sol lampo, paradossalmente, per rinnovarla con un entusiasmo che tradisce il calcolo, talvolta persino l’istinto di sopravvivenza. La morte più veloce perché, come cantava Neil Young, “it’s better to burn out than to fade away“. Piu veloce, e anche più cruenta. È qui che nascono i Martiri: al patibolo, non al catechismo.
Quando San Paolo viene decapitato l’uomo è morto, ma la sua dottrina gli è sopravvissuta, plasmando per secoli e millenni la storia d’Europa. L’Inter ieri assomigliava invece a un’altra testa, quella di Giovanni Battista contro Guardiola/Salomé, principessa, incantatrice capace di ottenere qualsiasi cosa desideri da chi la adula. Tiziano la dipinge casta, mentre tiene in braccio con espressione candida ed ingenua il suo crudele premio.
Così Guardiola con le sue felpe da uomo comune pietrifica più di un uomo con la ventiquattrore, finanziato dai peggiori sicari del pianeta. È il progressismo bellezza, non importa quali mani e sovraordinati disegni lo guidino, sporche o pulite che siano loro si comportano comunque come se i buoni, i giusti, i migliori fossero sempre e solo loro. È l’abisso della crudeltà, tanto più terrificante quando è mescolata all’innocenza, alla virtù cooptata nel migliore dei casi. E questo lo è indubbiamente.
Cara Inter ieri il tuo avversario è stato feroce più di quanto la sua partita, assai mesta, dica. Il City, narrato come il fuoco di Sauron, sembrava invece la Juve di altri tempi in tutto, tranne che per la scorrettezza endemica di cui almeno ieri non c’era traccia.
Una squadra che ha bisogno di un aiuto per vincere, non dagli arbitri ma dagli avversari stavolta. A un certo punto pareva anzi quasi voler conceder il pareggio con un atteggiamento talmente giudizievole da inibire il colpo di grazia, ampiamente alla loro portata. L’Inter ha rifiutato di capitolare, si è opposta al giogo, non ha bevuto la cicuta come Socrate davanti alla prospettiva dell’abiura o della fine.
Non ha scelto di perdere ma non ha saputo vincere, si è confusa nel principio di piacere di Guardiola, diventando sfondo del suo simulacro, un trionfo tronfio, nato saturo. Una volta una grande terapeuta mi disse che quelli come lui, che hanno avuto ogni facilitazione a vincere nello sport come nella vita, non godono come chi arriva allo stesso punto ma da una strada in salita. Noi avremmo goduto enormemente di più se avessimo vinto e per lo stesso motivo il giorno dopo soffriamo enormemente di meno.
Anche per questo il povero tollera la sua povertà e il ricco non è mai sazio, anche per questo i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre di più. Ma questo è un altro discorso, il discorso che poi finisce con Salomé che porta la testa di Giovanni vicina al cuore perché senza l’Altro, anche l’altro morto per nostra mano lunga, non possiamo sentirci vivere.
Cara Inter, in questo caso il simbolo del distacco della testa si veste di un altro significato ancora: la testa è l’aristocrazia, che finora ha guidato il popolo così come la mente comanda al corpo. Non sei più il giocattolo di un petroliere bambino che dopo aver comprato Ronaldo finanzia la rivoluzione zapatista o Inter Campus, orgoglio di chi è diventato interista perché Zanetti è una brava persona.
Sei un debito in mano a un governo lontano, che non ha più bisogno di te per esser rispettato nel mondo, indebitato a sua volta con holding al cui cospetto il Milan berlusconiano che mio padre mi proibì di tifare per etica familiare, sembra una missione di carmelitani scalzi in Africa.
E a proposito di rispetto: il City che ti applaude convinto è la riunione della vittima col carnefice. Non è un ritorno al passato, non è una ripetizione di ciò che era già stato. Devo tornare di nuovo al punto focale dell’opera: mentre prima la testa svettava sovrastando il corpo, ora è scesa, e le mani la tengono in un luogo simbolico importantissimo, vicino al cuore. È il segno eloquente, nudo per chi sa vedere, che il City per vincere ha bisogno di un’Inter che si convinca a non vincere al posto suo.
Pep ha dimostrato di aver finalmente imparato la lezione che anni fa gli impartì Mourinho. Un tiki taka psichico, mentre sul campo da gioco vado all’italiana. Catenaccio puro negli ultimi minuti e che belli gli artisti che firmano il proprio capolavoro concedendosi la libertà di contraddirsi, di andare contro al personaggio che si sono costruiti. Siamo al “Se incontri Buddha, uccidilo”.
Cara Inter forse, ieri sera, non potevi avere ambizione diversa da questa e lo sapevamo tutti, forse oggi avrei scelto un’altra opera d’arte con un miracolo alle porte ma l’arte si dice ci scelga e “i poeti aprono sempre la loro finestra, anche se è una finestra sbagliata”. Anche questa è vita, vita e destino, il destino di una poetica intera dai colori nerazzurri che sta diventando una squadra di calcio come le altre, con epiteti banali come una poesia su commissione di Arminio dopo la tragedia di turno. Oppure no. Perché a noi tifosi dicono sempre che dobbiamo essere ultimi ad arrenderci.
Io mi arrendo persino con lo strano sollievo che solo un interista può evocare davanti alla sconfitta, non riesco a farlo davanti alla scomparsa della poesia. Tutto il resto è se ho vinto se ho perso e lo lascio volentieri a chi intende il calcio soltanto come uno sport. Come se non ci fossero squadre che nonostante gli esseri umani facciano di tutto per ucciderle, restano opere d’arte.
Cara Inter, amala. Amala e solo se necessario, vinci ogni tanto. Ricordati che Dostoevskij è interista quando scrive che si vive per un solo attimo di beatitudine. Se si vince troppo, si diventa mostruosi come neanche perdendo sempre. Esagera solo con le sconfitte, attraverso esse imprimi in noi la sensazione del giorno ineluttabile in cui il sole inghiottirà la vita sulla terra rendendoci pronti davanti alla morte.
La doppietta di Comandini, il 5 maggio, il rigore su Ronaldo valgono la recitazione integrale del libro tibetano dei morti. Le discese di Maicon, il sinistro a giro di Recoba e la furia cieca di Barella la vertigine che si prova davanti alla Cappella Sistina. E chi dice di no potrebbe non essere mai nato davvero. Cara Inter, grazie quindi per farci sentire vivi, pazzi e felici soltanto per il fatto che tu esista, da qualche parte, dentro di noi fratelli del mondo.
Sostieni Kulturjam
Kulturjam.it è un quotidiano indipendente senza finanziamenti, completamente gratuito.
I nostri articoli sono gratuiti e lo saranno sempre. Nessun abbonamento.
Se vuoi sostenerci e aiutarci a crescere, nessuna donazione, ma puoi acquistare i nostri gadget.
Sostieni Kulturjam, sostieni l’informazione libera e indipendente.
VAI AL LINK – Kulturjam Shop
Leggi anche
- Il neocapitalismo sta socializzando la felicità e privatizzando la sofferenza
- La crisi demografica italiana tra miti ed ineluttabilità
- Bipolarismo all’italiana: ricchi di destra contro ricchi di sinistra
- Napoli campione d’Italia: Luigi Necco e Maradona se lo stanno raccontando nell’altrove
- Schlein e l’azienda progressista
- L’Italia guerrafondaia tra propaganda, trasformismo e irresponsabilità
- Dittature. Tutto quanto fa spettacolo: si può essere ironici su temi serissimi e al contempo fare opera di informazione e presidio della memoria?
- Dialoghi della coscienza: l’intensità magica del silenzio e la necessità di una poesia intima
- Il soffione boracifero: ritorna dopo 10 anni il romanzo cult
- Cartoline da Salò, nel vortice del presente