Elly Schlein è invasa dalla predisposizione neo-progressista nel quale tutto si trasforma in percorsi, in viaggi e in esperienze. Dove l’azienda, da luogo politico del conflitto, diventa un’atmosfera.
L’azienda progressista
L’intervista rilasciata a “Vogue” della Schlein non colpisce solo per l’armocromia. Esiste un altro passaggio passato sotto traccia. Probabilmente il più significativo, perché se da un lato l’attuale governo colpisce le fasce popolari a colpi di mannaia dall’altro la sinistra continua a fortificare le basi culturali che fungono da terreno fertile per quelle politiche reazionarie.
Si parla del fallimento personale: “Se perdo, guardo bene in faccia la sconfitta senza negarla, anzi, provo con umiltà a capire come migliorare, come rialzarmi. Nel mondo delle start up ci sono persone ben più autorevoli di me che raccontano come il fallimento sia parte di un percorso che porta a una nuova opportunità“. Ecco il segretario del Partito democratico spiega in modo cristallino a quali valori si poggia la mentalità neoliberale della concorrenza individuale.
L’essere umano sceglie e sono quelle scelte che portano o al successo o alla sconfitta. Le scelte equivalgono a investimenti che danno profitti o perdite. Se sconfitto l’individuo ha l’obbligo di rigenerarsi, di rinnovarsi, insomma di rinascere con schemi mentali più razionali.
Il “percorso” citato si riferisce alla vita di mercato e l’opportunità concessa dal fallimento è possibile solo con una confessione: l’ammissione della propria colpa.
Questo impianto valoriale, assorbito da gran parte della popolazione di sinistra, nasconde, con sguardo accattivante, il più bieco darwinismo sociale nella misura in cui non prevede affatto l’esistenza di una società. Esistono singoli individui che, per loro esclusiva responsabilità, si sistemano in differenti gradini della scala sociale.
Le diseguaglianze sono ammorbidite dal merito dei vincenti. Scompare così il sistema capitalista che si struttura sull’ingiustizia.
Fa da corollario alla dichiarazione l’esaltazione delle start up, alle quali la Schlein concede la qualità dell’autorevolezza. Traspare una sorta di ammirazione incondizionata per il mondo del capitalismo digitale, quell’ambiente imprenditoriale avvolto un’aura mistica nel quale si sprigionerebbe un’antologia di coraggio, innovazione, performance e scintilla creativa dell’essere umano. Un mondo di visionari che hanno incarnato un nuovo spirito rivoluzionario.
Peccato però che proprio quello spirito ha ammodernato la mentalità predatoria del capitalismo con accenti di crudeltà esistenziale. Il presunto innovatore difatti si presenta come un nuovo aristocratico, investito legittimamente dal merito personale.
Quindi posto in una condizione di privilegio non contestabile. Un capitalismo che non genera posti di lavoro in quanto sfrutta l’impegno dei consumatori o dei fornitori dei servizi i quali offrono senza tutele le proprie attività. In più corrisponde a una filosofia manageriale che non crea tecniche nuove ma sfrutta quelle già presenti.
Un capitalismo specificatamente parassitario quindi che appiccica algoritmi a nuovi schiavi sostituibili col passare del tempo da robot.
Elly Schlein è invasa da questa predisposizione progressista che cela un totalitarismo repressivo nei confronti degli ultimi e dei lavoratori ma permissivo nell’espansione dei desideri immateriali di individui illuminati. Nel quale tutto si trasforma in percorsi, in viaggi e in esperienze. Dove l’azienda, da luogo politico del conflitto, diventa un’atmosfera.
Una situazione che confonde vita privata, evasione e lavoro senza soluzione di continuità. Se il modello culturale sono le start up facile per la destra violentare il primo maggio con nuovi decreti sulla precarietà.
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