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Il concetto di politicamente corretto (o politically correct, per usare il termine originario inglese) ha guadagnato terreno come strumento per correggere i linguaggi discriminatori e irrispettosi che permeavano la cultura dominante. Tuttavia, la riflessione su questo approccio evidenzia limiti e contraddizioni che meritano attenzione.
Politicamente corretto: un’ortopedia verbale
Il politicamente corretto, inteso come “rispetto nominale”, è stato un correttivo necessario in una società dove molte diversità erano denigrate attraverso il linguaggio. Ogni parola rappresenta infatti un’interpretazione del mondo, spesso carica di impliciti culturali e simbolici.
Ad esempio, termini come vecchio, pur semanticamente neutri, portano con sé connotazioni negative (come bruttezza o inadeguatezza) nella cultura occidentale odierna, laddove altrove e in altre epoche potevano significare saggezza e rispetto.
Questa “ortopedia verbale” tenta di imporre compostezza e rispetto attraverso regole linguistiche. È come un trattamento educativo per “insegnare buone maniere”, ma resta da chiedersi: chi stabilisce queste regole? Qual è il limite tra ciò che è rispettoso e ciò che è imposto?
In questo meccanismo si annida il rischio che il linguaggio corretto diventi una facciata, senza affrontare le radici culturali che perpetuano disuguaglianze e pregiudizi.
Il paradosso della consuetudine
La consuetudine sociale, che un tempo giustificava termini offensivi, può ora trasformarsi in una nuova forma di veleno. Cambiare una parola non cambia automaticamente la percezione o il significato sottostante.
Tornando all’esempio di vecchio, l’omissione del termine non elimina i pregiudizi associati alla vecchiaia; questi continuano a operare a livello simbolico, come “rimosso” freudiano.
Ciò suggerisce che la vera sfida non è solo linguistica ma culturale: convertire il significato, trasformando il simbolico e non semplicemente censurandolo.
Un altro limite è rappresentato dall’uso eccessivo o strumentale del politicamente corretto, che può degenerare in una sorta di moralismo imposto. Questo accade, ad esempio, quando si censura una parola senza considerare il contesto, rischiando di sopprimere un discorso critico o di favorire l’ipocrisia.
Chi dà del ‘frocio’,per farla breve, scopre subito le carte, mentre chi evita di usare termini offensivi non è necessariamente libero dai pregiudizi, che possono emergere in modo più sottile, ma altrettanto dannoso.
Tuttavia, non ogni violazione del politicamente corretto è reazionaria. In alcuni casi, la scorrettezza può essere funzionale a rompere convenzioni stagnanti e aprire la strada a nuove possibilità di convivenza. Il cambiamento è sempre, almeno inizialmente, “maleducato”. La rivoluzione, per definizione, non è un pranzo di gala.
Il politicamente corretto, con i suoi meriti indiscutibili, è uno strumento potente ma imperfetto. Riconoscendo i limiti delle parole e la necessità di un’azione che vada oltre il linguaggio, sono le parole, il più delle volte, a pensare noi.
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