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Il fallimento del referendum rivela l’irrilevanza del voto senza conflitto sociale. Non è colpa di Rizzo o dei sovranisti, ma del dominio neoliberale imposto dai trattati UE, col PD come esecutore. Serve una lotta duplice: economica e culturale. Ora o mai più.
Tornare ai fondamentali: il conflitto sociale prima del voto
Si dovrebbe smettere di guardare l’ombelico del nostro piccolo mondo, di questa piccola bolla nella quale sembriamo sempre l’umanità intera per poi scoprirci in una sostanziale insignificanza sociale. Per questo la smetterei di ricercare, solo per qualche interazione digitale in più, polemiche con fantomatici sovranisti duri e puri ormai affascinati dalla destra trumpiana, che non spostano voti né hanno molta consistenza politica.
Le ragioni del fallimento referendario vanno ricercate percorrendo vie più coscienziose. Non è un Marco Rizzo che potrà mai sconfiggere un quorum.
Siamo, invero, abituati a nazionalizzare i problemi. Il Jobs Act, per esempio, lo identifichiamo con l’astuta e irreprensibile frenesia riformista di Matteo Renzi, unico e solo responsabile della recrudescenza padronale che, improvvisamente, ha colpito il Paese.
Un po’ come, improvvisamente, e solo con Netanyahu, Israele avrebbe deciso la pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania. Peccato, però, che le controriforme nel campo del lavoro partano da lontano; per esempio, dalla richiesta inappellabile di sacrifici che i lavoratori avrebbero dovuto sopportare per il bene supremo del Paese, richiesta dell’allora CGIL di Luciano Lama.
Richiesta, poi ribadita con la forza della loro capacità coercitiva, dai governi tecnici della seconda repubblica. In rapida sequenza: Amato, Ciampi, Dini, Monti. E anche Prodi, che fu tecnico più populista, camuffato da leader di partito. Tutti devoti e ossequiosi osservanti della Costituzione economica neoliberale che prendeva forma attraverso le raccomandazioni vincolanti, le direttive inappellabili dell’Europa Unita e compatta nel disintegrare il movimento dei lavoratori.
Sta di fatto che anche il Jobs Act è una riforma concepita a livello sovranazionale, di quelle che aggiustano gli spread se imposte con il giusto tocco autoritario. E dalla Costituzione economica sovranazionale, questo è il dato che ancora qualcuno fa finta di non capire, non si può tornare indietro. Saranno gli investitori privati a delineare le politiche sociali di un paese perché l’autorità statale dovrà agire seguendo il faro della giustizia di mercato.
Ecco il motivo della mancata partecipazione alla campagna referendaria del Partito democratico, che ha fatto di certo le sue dichiarazioni di prammatica sull’importanza del voto, sulla bellezza della partecipazione, ma che non si è affatto mobilitato a supporto della CGIL, o di quella parte che voleva realmente il quorum, e dei lavoratori.
Il Pd è il partito “emissario” dei voleri europeisti che si incentrano sulla stabilità della moneta e sulla svalutazione del lavoro. Sono i trattati e definire questa impostazione, dalla quale non si può tornare indietro in nessun modo. Ma il totalitarismo neoliberale gode di un altro elemento chiave perché la legislazione riformista non debba mai essere rivisitata; è la Presidenza della Repubblica.
Insieme ai giornali “fotocopia”, uniformati dall’ideologia di mercato, Mattarella ha contribuito a silenziare la campagna sindacale perché, sin dal Trattato di Maastricht, il suo ufficio è garante dell’applicazione e dell’osservanza dei vincoli comunitari, della loro sottostante dottrina economica e non più del rispetto della Costituzione.
Non sono mai mancati i riferimenti diretti dei vari Capi di Stato, succedutisi negli ultimi trent’anni, sull’importanza dell’Europa, della sua impostazione dottrinaria, che doveva prevalere sulle piccolezze disciplinate dalla nostra Costituzione che non poteva tener conto della complessità dei mercati globalizzati.
Tanto stretta l’osservanza da scegliere alla guida di un governo il faccendiere Mario Draghi senza alcun passaggio parlamentare, per mettere nella cassaforte della Commissione europea le fondamenta e i dettagli del PNRR.
Ma in più tanti anni di propaganda sull’ideologia d’impresa hanno ormai convinto molti lavoratori – si pensi al settore privato gestito da fondi internazionali, con un ceto impiegatizio non poi così solido economicamente, ma, al contempo, orgoglioso professionalmente; o al settore terziario dove lavori precari si alternano a veri e propri lavoretti sotto il vigile ricatto del padrone; o al campo dei lavori creativi nei quali la scintilla artistica è così accomunata a quella imprenditoriale – che la vulgata ideologica sulla necessità di far conto solo sulle proprie forze sia un vero e proprio manifesto dell’emancipazione personale, associabile direttamente al termine libertà.
Insomma, la positivizzazione del concetto di sacrificio, il suo risvolto ottimizzato, che contribuisce a edificare un uomo nuovo, “sempre pronto” come si ama dire scimmiottando la performance competitiva, che impara ed evolve all’interno delle dinamiche di mercato per poi esaltare una letteratura progressista sul “merito” personale che civilizzerebbe la società intera.
Per concludere, non è possibile né ingannare quel 30% della popolazione che ha partecipato con convinzione al referendum né è possibile accettare che gran parte di essa si autoinganni. Un referendum su materie così decisive, che avrebbe davvero rappresentato un segnale di controtendenza rispetto a decenni di mobilitazione reazionaria, doveva maturare a seguito di una stagione caratterizzata da un convinto conflitto sociale.
Non è un caso che nella zona della GKN le percentuali siano molto più significative. Il voto, difatti, è solo un aspetto della vita democratica, forse il meno rappresentativo. Senza una partecipazione politica costante, in un ambito di lotta anticapitalista che poi può anche avere risultanze riformiste, il voto è facilmente manipolabile ed eludibile.
Alla stratificazione politica delle classi, sopravviene la cappa impolitica della società civile che sfugge a qualsiasi ragionamento sulla struttura dell’economia per avvitarsi in battaglie innaffiate da continui moralismi culturali.
Motivo per cui la lotta deve seguire due distinti fronti. Quello strutturale ed economico e quello ideologico/culturale. Per far sì che la lotta abbia un minimo di credibilità è necessario allontanare definitivamente il Partito democratico dalla vita della sinistra italiana, con buona pace di qualche suo ingenuo militante magari anche in buona fede.
E occorre scongiurare qualsiasi “campo largo”, anzi puntellare i 5Stelle perché non cadano nel labirinto ideologico a cui li ha costretti il sistema costitutivo della seconda repubblica. Solo così si potrà aprire una lunga stagione di lotte, inizialmente, con molta probabilità, sconfitte ma che germoglierebbero risvegli di politicizzazione.
E contemporaneamente rilucidare il linguaggio: classe, padroni, sciopero, lotta non sono insulti né anticaglie; descrivono con naturalezza la realtà.
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