Cosa vuole Di Battista il rottamatore? Staccare la spina al governo, correre da solo con il Movimento delle origini, riabbracciare la Lega?
Torna alla carica Di Battista in versione rottamatore
È arrivata la seconda ondata tanto temuta e le crisi di nervi sono già visibili: i vertici stanno cercando di mantenere la situazione stabile mentre l’opposizione interna sta soffiando sul fuoco. Ma chi è alle prese con la bufera emotiva è, come sempre, la base.
Non stiamo parlando del coronavirus ma del nuovo ritorno di Alessandro Di Battista. La similitudine c’è ma, in questo caso, come scriveva Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non seria.
Dibba viene e va dal Sudamerica all’Iran, dal Manzanarre al Reno, a volte apparentemente lontano dalla politica attiva e dalla quotidianità del Movimento 5 stelle.
Poi improvvisamente ritorna, si esprime, per poi defilarsi nuovamente. A ondate, appunto.
Aleggia sugli scontenti duri e puri del Movimento come il mito della super-arma che risolverà la guerra. Come il super-cannone di Saddam Hussein negli anni ’80.
Dopo le recenti elezioni regionali, definite da Di Battista la peggiore sconfitta della storia del M5s, ha rincarato la dose dichiarando che il M5s starebbe diventando un partito come l’Udeur, buono più per la gestione di poltrone e carriere, è scoppiato il caos nei grillini.
La vittoria di Pirro nel referendum sul taglio dei parlamentari ha dato un po’ di respiro alla compagine governativa ma le bastonate prese alle urne sono state tali da non poter essere messe sotto silenzio.
La fronda Rousseau
E così la lotta fratricida è scoppiata, vedendo da una parte i governisti, ovvero Di Maio e gli altri componenti vicini a Conte e all’idea di un Movimento di Palazzo, disposto a cedere alle alleanze. Dall’altra gli scissionisti, con Davide Casaleggio pronto a staccare la spina di Rousseau e tornare alla visione antipartitica delle origini.

Ma in tutto questo sfugge il ruolo di Di Battista. Se da un lato ha l’intenzione di arrivare alla carica di capo politico, dall’altro continua a rimarcare la sua estraneità al mondo politico, continuando nella parte dell’indifferente al fascino della poltrona.
Peccato che tutte le attività intraprese dal Dibba in questi anni (scrittore, giornalista, viaggiatore terzomondista) dipendano in gran parte dai suoi ruoli interni all’area grillina e dunque, perdendo contatto con la casa madre, sembrerebbe che abbia scelto la strada della rottamazione in stile renziano per riprendere centralità nel movimento.
La resa dei conti
Per il M5s è arrivato il tanto atteso momento degli Stati Generali. Vito Crimi, capo politico ad interim, ha convocato il congresso il 7 e 8 novembre. Ma la vera resa dei conti sarà quella tra il Dibba e Davide Casaleggio, che rappresentano l’ala ortodossa del M5S, quella ancorata alle origini, che predilige il sistema degli iscritti ed è contraria sia alle forme partitiche che all’alleanza con il Pd, la morte nera, come Di Battista definì l’unione dei grillini con il partito di Nicola Zingaretti.
A loro si contrappone l’ala governista, con Luigi Di Maio in testa, che invece è favorevole alla creazione di un nuovo modello più vicino ai partiti, con alleanze sul territorio con il Pd e una struttura interna meno dipendente da Rousseau e dal voto degli iscritti.
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La linea di confine dello scontro è soprattutto sul terzo mandato. Ma non per una questione ideologica, ma per semplice prassi politica: il controllo della creatura grillina. Di Battista e Casaleggio sono contrari alla fine del tetto del doppio mandato, perché vogliono la stabilità interna del Movimento e il presidente di Rousseau potrebbe avere gruppi non fortificati e più controllabili.
Di Maio, invece, vorrebbe liberare dai vincoli del mandato per continuare con questa generazione grillina l’avventura ufficiale nella politica che conte. Diventare un partito a tutti gli effetti, animato dai principi originali ma non più vincolanti. L’unico che non è ancora intervenuto nel dibattito è il fondatore del Movimento, Beppe Grillo.

E se vincesse Di Battista?
Ma cosa vuole Di Battista in pratica? Staccare la spina al governo, correre da solo, riabbracciare la Lega?
In effetti Dibba ha avuto la sua fase salviniana durante il primo governo Conte. Il suo era tutto un fiorir di dichiarazioni a sostegno della maggioranza, parlava addirittura come Salvini.
Nel pieno delle sbornie estive del capitone al Papeete, con la criminalizzazione delle Ong, gli insulti sessisti a Carola Rachete, Di Battista lanciava strali contro i radical chic, i comunisti col Rolex, e poi gli attacchi a Saviano, basta con l’accoglienza, aiutiamoli a casa loro.
Immaginiamo la delusione che deve aver attraversato i grillini di sinistra o gli ex comunisti simpatizzanti del movimento che avevano visto in lui un nuovo capitano, un subcomandante Dibba, e poi si sono ritrovati la versione mascolina di Lorella Cuccarini.
Come finirà questa faida? L’esperienza e gli ultimi risultati nelle urne ci suggeriscono che un moderato tipicamente italiano, vetero-democristiano allergico a una simile destra xenofoba, alla fine finirebbe per votare un’alleanza col Pd, mentre un populista a tutti gli effetti sceglierebbe il pacchetto proposto dal duo sovranista Salvini–Meloni.
Un ipotetico terzo polo capeggiato da Di Battista, come ai vecchi tempi del corriamo da soli, puntiamo al 51%, cioè utopia pura, il facimme ammuina alla Masaniello sarebbe fuori dallo spirito del tempo.
In quest’Italia alle prese con la sopravvivenza al virus e alla crisi economica, farebbe la fine di Italia Viva: numeri da prefisso telefonico e attacchi di solipsismo renziano del proprio leader.
Ci sbilanciamo, come al totoscommesse: vincerà Di Maio.
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