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Il cinema di oggi ha bandito i caratteristi come Alvaro Vitali, simboli di un’Italia contraddittoria e popolare. Scomparsi i volti inopportuni, resta una rappresentazione levigata e borghese, lontana dalla realtà sociale che un tempo animava il grande schermo.
Alvaro Vitali e le maschere assenti
Non si produce più cinema adatto per volti inopportuni. Solo il bianco e nero concepisce “Capannelle” o Tiberio “Ferribotte” Murgia; Alvaro Vitali, al contrario, è indissolubilmente inquadrato nella posa pecoreccia e pruriginosa di quando le liceali strizzavano l’occhiolino a professori attempati. Da quel recinto non è mai uscito.
Appare evidente l’assenza nel cinema contemporaneo delle maschere viventi, di quelli che venivano chiamati “caratteristi“, perché sostanzialmente riproducevano nei film il loro modo di essere, l’esasperazione del proprio spirito.
La ragione è semplice. Il cinema non ritrae più la realtà della stratificazione sociale, le contraddizioni della nostra società. Non ha più bisogno di volti dai lineamenti più oscuri che magari richiamano la sofferenza data dalla miseria o il turbamento della sconvenienza.
Non è interessato al racconto di prototipi umani che vivono alla giornata, di quelli che ancora si possono incontrare tra i facchini dei mercati generali, negli angoli nascosti dei rioni invasi dai turisti, nelle periferie più torride. Quelle esistenze non ammaliano il pubblico, se non quando vengono appositamente enfatizzate così da cadere nel ridicolo.
Il cinema contemporaneo, quello plasticamente impersonificato dai “Perfetti sconosciuti”, pretende da un lato una descrizione levigata e civilizzata della realtà e dall’altro lo scimmiottamento della saga criminale americana, privata però del fuorilegge che rompe il patto sociale, così come indicato dalla manualistica sul mito della frontiera.
Entrambi gli scenari sono intrisi di conformismo culturale, di pedagogia sull’ingentilimento della collettività, nel momento in cui a essere raffigurata è un’unica classe sociale che non potrà mai assumere l’aspetto di un Alvaro Vitali.
I ragazzi studiati, creativi, “giovani, carini e disoccupati”; i quarantenni impegnati in lavori appaganti ma contemporaneamente irrisolti, tormentati; gli intellettuali lettori de “La Repubblica”, con i loro appartamenti monumentali, con accesso diretto ai giardini fioriti di ogni città; le donne coraggiose che da sole affrontano con dignità, saggezza, consapevolezza, profondità la violenza maschile che si annida anche dietro un semplice sorriso, sono l’interminabile oggetto del nostro cinematografo.
Questo perché attori, registi, sceneggiatori, scrittori non abitano più in quartieri. Frequentano bolle nelle quali tutti rovesciano addosso agli altri la ripetizione identica delle loro vite. Questa reciprocità ottusa cannibalizza l’estro, disintegra lo sguardo sull’esistenza degli altri che si manifestano come fantasmi o come buffi personaggi su cui costruire facile ironia. Sono rinchiusi nelle loro cerchie ristrette, nei quartierini dove sospira solo bella gente.
Tempo addietro nella stessa strada abitavano il signore, l’arricchito, il bottegaio, il proletario, il regista, il professore, il malvivente e l’emarginato costretto a inventare un pranzo tramite continui espedienti.
In quella giostra chiassosa e colorita trovavi anche gli Alvaro Vitali che poi finivano nei film, per raccontare la vita di un popolo immerso nella realtà delle contraddizioni sociali e non estaticamente incantato dal genio autocompiaciuto di un piccolo gruppetto di amici che si fregia di essere l’autentico “mondo culturale”.
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