L’Emilia Romagna si è evoluta come un denso e indistinto cordone urbano orizzontale che fa da sbarramento al defluvio naturale delle acque da crinali verticalizzati e disposti a pettine. Un paesaggio totalmente artificiale, inventato da una insistita azione umana.
Emilia Romagna, la catastrofe ripristina l’equilibrio ex ante violato dagli artifici ingegneristici
Di Fausto Anderlini*
Ci saranno certo stati deficit manutentivi e colposi ritardi nel fare queste benedette casse di espansione. Nulla da eccepire a chi avanza critiche, anche se il paragone col Veneto per lanciare in orbita Zaia lascia il tempo che trova.
La realtà morfologica e idrografica del veneto, coi suoi grandi fiumi di origine alpina e la possente linea delle risorgive, è del tutto diversa dal caso emiliano romagnolo e della fascia cispadana. Realtà incommensurabili.
Posso sbagliarmi, ma la mia idea è che la catastrofe ha a che vedere proprio con l’eccesso di manipolazione umana che nel corso dei secoli, almeno a partire dalle prime bonifiche del XVI secolo ha sfidato la natura idrografica del luogo imponendo un paesaggio del tutto artificiale.
Prima con le bonifiche agrarie e poi con l’urbanizzazione diffusa sino a una parossistica pressione antropica. Terre coltivate a perdita d’occhio, fiumi pensili che corrono sopra il livello del terreno che a sua volta è subsidente, cioè sotto il livello del mare, un intrico di canalizzazioni regolative del corso delle acque. E aggregati demici e aree manifatturiere disposti come fungaie con minime soluzioni di continuità.
La Via Emilia prima punteggiata di città ora evoluta come un denso e indistinto cordone urbano orizzontale che fa da sbarramento al defluvio naturale delle acque da crinali verticalizzati e disposti a pettine. Un paesaggio totalmente artificiale, inventato da una insistita azione umana.
Azione programmata, fino a un certo punto, ma anche spontanea e occasionalistica. Un nuovo paesaggio laddove un tempo imperava il regno della Padusia, una immensa distesa terramaricola di acque e pantani. Il ‘sito instabile’, come lo chiamava Gambi, che a partire dal Savio si estendeva a Nord sino al delta del Po e a occidente sino al Panaro.
Il corso del Reno, il fiume che raccoglie tutto il sistema imbrifero che va sino al Senio e che fu elevato al rango di dipartimento dal genio politico-scientifico dei napoleonidi, è una creazione artificiale di ripetuti interventi che datano dal tardo settecento.
Chi voglia avere una idea dell’antico paesaggio palustre deve oggi limitarsi ad alcuni minuscoli presidi: come l’oasi di Campotto in quel di Marmorta a Molinella e ciò che resta delle valli di Comacchio.
Per oltre due secoli almeno questo sistema ingegneristico ha retto la prova con successo grazie a due fattori in equilibrio: uno sviluppo antropico e funzionale, prima agrario e poi urbano industriale, delimitato, per quanto vigoroso, entro forme riconoscibili; e una climatologia relativamente stabile con impatti oscillatori prevedibili.
Condizioni, entrambe, oggi superate: dismisura insediativa da un lato, con gravi effetti sulla impermeabilizzazione del suolo, emungimento delle falde, subsidenza; dismisura climatica dall’altro lato, con il succedersi di eventi estremi.
Sicchè la rete di capitale sociale è ad un tempo troppo vasta e complicata rispetto alla pressione antropica e troppo scarsa rispetto alla pressione vendicativa della natura. Causa del male e suo rimedio, in un intreccio perverso. Come del resto accade nelle crisi di valorizzazione, nelle quali il capitale è troppo rispetto al lavoro vivo, ma troppo scarso per mobilitarne di nuovo.
Non per caso la destra, alla quale dell’ambiente non ha importato mai una mazza, oggi vede nelle catastrofi una succulenta occasione per avviare grandi politiche di investimento infrastrutturale. Come già avvenne con le bonifiche, dove il capitale di Stato mise i soldi al servizio della rendita agraria.
Mentre invece la catastrofe è il modo violento col quale la natura ripristina l’equilibrio ex ante violato dagli artifici ingegneristici. La natura che in qualche modo si riprende ciò che le è stato tolto. Nel nostro caso quel regno terramaricolo che per millenni erano stati i pantani della Padusia.
Piuttosto che salire di scala nella prevenzione del rischio, con nuove infrastrutturazioni, bisognerebbe invece regredire di scala, uscendo dal circolo vizioso. Ovvero diminuire la pressione antropica e ripristinare aree naturali, permettendo alla natura di rilasciare in modo costante un certo quantum della propria energia.
Per ‘tornare indietro’ occorrerebbero passi giganteschi in avanti mettendo in opera una razionalità di piano ante-festum dai caratteri socialisti. Cambiando l’agenda: uno sviluppo delle forze produttive delimitato da una rigorosa alleanza con la natura.
Ma c’è da scommettere che accadrà il contrario, come già si è visto in occasione dei terremoti. Le catastrofi anzichè affratellare in una rinnovata cooperazione sociale, malgrado le retoriche che inondano i media, spingono in direzione di un ripristino violento del diritto proprietario, cioè a destra. Perchè le catastrofi non solo impattano realtà antropiche in eccesso, ma in più anche società a patrimonialità diffusa, con effetti sulla psicologia collettiva che sarebbe bene investigare a fondo.
Per intanto non sarebbe male, seguendo questo necessario slancio all’indietro. ripristinare le vecchie province, malignamente sradicate dalla furia iconoclasta dai riformisti della crescita e dell’ingegneria istituzionale. Enti perfettamente attagliati al rilievo morfologico del territorio, secondo il modello dipartimentale napoleonico, e perciò capaci di una visione adeguata dello stesso. Laddove il Comune è una realtà troppo circoscritta.
Un tempo la manutenzione del territorio la facevano le Province, e anche abbastanza bene. Era la Provincia che coadiuvava i piccoli comuni delle periferie remote, ed era sovente la Provincia che metteva limiiti a piani regolatori comunali da sballo…
*Grazie a Fausto Anderlini
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