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Sudan, l’inferno invisibile: fosse comuni, stupri e bombardamenti nel disinteresse del mondo

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Nel Sudan in fiamme, ogni regola di guerra è stata infranta. Fosse comuni, stupri, assedi, bombardamenti indiscriminati e una popolazione ridotta alla fame: siamo davanti a una tragedia che avrebbe bisogno di ogni riflettore acceso. Invece, cala il buio.

Sudan, l’inferno invisibile

Nel silenzio quasi totale dei media internazionali, il Sudan affonda ogni giorno di più nell’abisso della barbarie. A oltre due anni dall’inizio della guerra civile tra l’esercito regolare sudanese (FAS), guidato dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, e le Forze di supporto rapido (RSF) del generale Mohammed Hamdan Dagalo, il conflitto ha assunto proporzioni apocalittiche.

Non solo per il numero di morti – oltre 27mila secondo Amnesty International – o per i milioni di sfollati, ma per la qualità degli orrori commessi, che rimandano a scenari da genocidio. L’ultima scoperta: fosse comuni nei pressi di Salha, nella periferia di Khartoum, contenenti decine di corpi gettati in container, testimoni muti di esecuzioni sommarie e stupri sistematici.

Un paese diviso, una guerra tra golpisti

Il Sudan, terzo Paese più esteso del continente africano, è oggi teatro di uno scontro tra due fazioni nate entrambe da colpi di Stato. Da una parte Al-Burhan, capo di un governo militare che ha preso il potere nel 2021. Dall’altra le RSF, milizia paramilitare nata da una precedente alleanza e poi trasformatasi in forza ribelle dopo la rottura degli accordi di transizione democratica.

Il conflitto è deflagrato il 15 aprile 2023 e da allora ha inghiottito il paese intero, dividendo il Sudan in una mappa di dominio che cambia di giorno in giorno: nord ed est al controllo delle FAS, ovest e sud, inclusa l’area strategica del Darfur, saldamente nelle mani delle RSF.

Il Darfur: un forziere d’oro e sangue

Cuore della contesa resta il Darfur, regione ricca di oro e minerali, già tristemente nota per le pulizie etniche dei primi anni Duemila. Oggi è sotto il controllo quasi totale delle RSF, che ne sfruttano le risorse per finanziare la guerra e rafforzare il proprio arsenale militare.

Negli ultimi mesi, le milizie di Dagalo hanno introdotto droni armati che hanno colpito obiettivi cruciali, come la città di Port Sudan – capitale amministrativa provvisoria – dove sono stati bombardati aeroporto, porto e depositi di carburante, costringendo l’ONU a sospendere i voli umanitari. È la prima volta che una fazione interna sudanese impiega armi di questo tipo con tale efficacia, cambiando drasticamente l’equilibrio delle forze.

La firma dell’orrore: fosse comuni e stupri

La conferma del massacro è arrivata con la scoperta delle fosse comuni a Salha. I container metallici pieni di cadaveri sono la testimonianza brutale di esecuzioni sistematiche di civili. A queste si aggiungono decine di testimonianze raccolte da ONG e osservatori indipendenti su stupri di massa, violenze su minori, distruzioni di interi villaggi.

Secondo Amnesty International, lo stupro viene usato come strumento deliberato di guerra. Il rapporto 2024-2025 documenta 27.000 vittime accertate e 33.000 feriti in meno di due anni, ma si tratta probabilmente di stime per difetto. Oltre l’80% degli ospedali del Paese non è più operativo, mentre due terzi della popolazione è priva di accesso a cure mediche.

L’assedio di El-Fasher e il collasso di Port Sudan

Le RSF non si limitano al Darfur. La milizia ha circondato El-Fasher, una delle ultime roccaforti nel Nord Darfur ancora in mano governativa. L’assedio ha provocato nuovi flussi di sfollati verso il Ciad, che già ospita oltre 1,3 milioni di rifugiati sudanesi. Nelle ultime due settimane, almeno 20.000 persone hanno attraversato il confine, affrontando razzie, stupri, estorsioni e, spesso, la morte per sfinimento o per le condizioni dei trasporti.

Intanto, Port Sudan – che funge da snodo logistico e sede di ministeri temporanei – è sotto attacco. La città, inizialmente risparmiata dal conflitto, è diventata un obiettivo strategico: bombardamenti hanno colpito il porto e l’aeroporto, mentre le Nazioni Unite denunciano l’impossibilità di far giungere aiuti umanitari.

Gli attori esterni: Ciad, Emirati e traffici d’armi

Dietro i fronti interni si muovono potenze regionali e globali. Le accuse più gravi vengono rivolte agli Emirati Arabi Uniti e al Ciad, sospettati di rifornire le RSF. Secondo fonti ONU, il Ciad orientale avrebbe facilitato il transito di armi verso le RSF tramite due aeroporti di confine.

Gli Emirati, da parte loro, sono accusati da Al-Burhan di complicità nel “genocidio della comunità masalita”. Accuse non del tutto provate, ma supportate da report che segnalano traffici sospetti e armamenti sofisticati nelle mani della milizia ribelle.

In questo scenario, le RSF ricevono supporto anche da altri attori globali: le forniture di armi, rilevate dai rapporti internazionali, arrivano da Russia, Cina e Turchia. Le forze governative, dal canto loro, non sono esenti da crimini: il conflitto ha mostrato in modo evidente la simmetria della crudeltà. Entrambe le parti utilizzano il terrore come arma, e nessuna via diplomatica concreta sembra all’orizzonte.

Un genocidio dimenticato?

Il Sudan è oggi un laboratorio di atrocità quasi ignorato dalla comunità internazionale. Le dichiarazioni ufficiali di condanna, comprese quelle congiunte di Stati Uniti e Nazioni Unite per l’attacco delle RSF a Zamzam e l’uccisione di membri della Croce Rossa, rimangono parole nel vuoto.

La sproporzione con la mobilitazione politica e mediatica su altri scenari, come Gaza o l’Ucraina, è drammatica. E il Sudan, privo di alleati potenti e senza una narrazione egemonica a suo favore, rischia di essere cancellato dalla memoria collettiva, anche mentre si compie il massacro.

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