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Gaza è un campo di concentramento: fame, espulsione, sterminio

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A Gaza si consuma una catastrofe umanitaria senza precedenti: fame, bombardamenti e deportazioni trasformano l’enclave in un campo di concentramento. Israele usa il cibo come arma, costringendo oltre due milioni di persone a vivere in condizioni disumane.

Gaza è un campo di concentramento

A Gaza, la crisi umanitaria ha ormai superato ogni soglia di tollerabilità. Secondo le Nazioni Unite, entro settembre oltre 470mila persone rischiano di trovarsi al quinto livello di insicurezza alimentare, ovvero la totale assenza di accesso a cibo e beni primari. La Striscia è stata ridotta a un deserto abitato, dove l’esercito israeliano ha impiegato la fame come strumento deliberato di guerra.

Lo stesso premier Netanyahu, in una riunione parlamentare trapelata, ha dichiarato che l’erogazione degli aiuti alimentari deve essere subordinata al fatto che i palestinesi non ritornino nelle aree da cui sono stati sfollati. L’obiettivo? Spingerli verso il sud, nelle cosiddette “zone di concentrazione”.

Attualmente, esistono soltanto quattro centri ufficiali per la distribuzione del cibo, a fronte dei duecento previsti dalle agenzie umanitarie. La loro collocazione – per lo più lontana dalle aree più colpite – conferma che non si tratta di rispondere a bisogni urgenti, bensì di costringere la popolazione a muoversi, espellendola dal nord della Striscia. Una deportazione lenta, sistematica, che si realizza attraverso la distruzione delle infrastrutture, i bombardamenti incessanti e la privazione programmata di mezzi di sussistenza.

La fame è diventata così uno strumento di controllo totale. L’approvvigionamento alimentare è usato non solo per umiliare, ma anche per esercitare pressione politica e militare. La logica dell’intera operazione si basa sulla creazione di un monopolio del cibo da parte di Israele, per manipolare la sopravvivenza stessa della popolazione. Un’arma silenziosa, ma non meno letale di un bombardamento.

Deportazione, concentrazione, annientamento

Nel frattempo, la popolazione è stata spinta verso tre aree ristrette: la zona di Gaza city (50 km²), i campi nel centro (85 km²) e l’area di Mawasi nel sud (8 km²). Si tratta di un territorio pari a circa il 40% della Striscia, dove si vorrebbero concentrare oltre due milioni di persone. La densità media raggiungerebbe i 15mila abitanti per km², un livello paragonabile solo ad alcune delle isole più sovraffollate del mondo.

Tuttavia, a differenza di Singapore o Macao, questi territori non dispongono né di infrastrutture né di accesso a risorse. Sono campi di concentramento a cielo aperto, in cui la sopravvivenza stessa è messa in discussione.

A rendere ancora più allarmante la situazione è la dinamica omicida che si sta sviluppando: i palestinesi che tentano di tornare alle proprie abitazioni, o che rifiutano di spostarsi, diventano bersagli. I bombardamenti servono non solo a distruggere il tessuto urbano, ma anche a rendere le aree del nord inabitabili, per impedire ogni ipotesi di ritorno.

Come nel 1948, l’obiettivo finale è la rimozione permanente della popolazione palestinese dalla propria terra, mascherata sotto l’etichetta di emergenza umanitaria.

Il silenzio internazionale e l’assenza di pressioni concrete consentono a questo piano di proseguire indisturbato. Secondo i dati delle Nazioni Unite e di osservatori indipendenti, già oggi 238 persone sono state uccise nei pressi dei centri umanitari.

Le immagini che arrivano dalla Striscia raccontano di una popolazione sfinita, costretta a percorrere chilometri sotto le bombe per ricevere una razione settimanale di cibo, mentre la violenza armata continua ad aumentare.

L’esperienza del XX secolo ha già mostrato cosa accade quando i processi di espulsione forzata degenerano in pulizia etnica e, infine, in sterminio. La strategia attuale – che unisce fame, espulsione e distruzione sistematica – non è un effetto collaterale della guerra, ma una scelta consapevole, pianificata e metodica.

I campi di concentramento di Gaza sono oggi una realtà, non una metafora. E se non vi sarà un intervento deciso della comunità internazionale, rischiano di diventare l’anticamera di una catastrofe ancora più vasta.

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