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Al G7 in Canada, i leader occidentali accusano l’Iran e ribadiscono il sostegno a Israele, ignorando i crimini di guerra a Gaza. Trump lascia il vertice per seguire la crisi. Una dichiarazione sconcertante che parla di pace sostenendo la guerra.
Il G7 a senso unico: l’ipocrisia occidentale tra condanna dell’Iran e appoggio a Israele
Nel cuore delle Montagne Rocciose canadesi, a Kananaskis, il vertice del G7 si è trasformato in un’operazione di legittimazione geopolitica unilaterale. Con una dichiarazione congiunta rilasciata lunedì, i leader delle principali potenze occidentali hanno espresso il loro “sostegno alla sicurezza di Israele” e la ferma condanna dell’Iran, accusato di essere la “principale fonte di instabilità e terrorismo nella regione”. Un linguaggio perentorio, privo di sfumature, che ignora del tutto la complessità del contesto mediorientale, i crimini di guerra reiterati di Tel Aviv e suona come un allineamento ideologico più che una presa di posizione diplomatica.
Un appoggio incondizionato mascherato da difesa della stabilità
Il testo firmato dai capi di Stato e di governo del G7 ribadisce che “Israele ha il diritto di difendersi”, frase che ormai da mesi accompagna – e giustifica – qualunque azione militare israeliana, anche quelle più controverse e devastanti sul piano umanitario. Non una parola, però, sulle decine di migliaia di vittime civili a Gaza, né sul bombardamento mirato di infrastrutture civili come ospedali, scuole, media nazionali. Anzi, il G7 rilancia con un’accusa frontale all’Iran, colpevole non solo di sostenere movimenti armati come Hezbollah, ma anche di proseguire il proprio programma nucleare.
L’occidente, che continua a fornire armi e copertura diplomatica a Israele, si erge così a giudice morale della regione, ignorando sistematicamente le responsabilità dell’alleato israeliano nel generare escalation e sofferenze su larga scala. Si invoca la “pace e la stabilità” in Medio Oriente, mentre si sostiene senza riserve una delle parti in causa, attribuendo all’altra la colpa di ogni destabilizzazione.
Trump saluta, il conflitto chiama
In un gesto emblematico della postura americana, il presidente Donald Trump ha lasciato il vertice dopo appena un giorno per “seguire da vicino la crisi” e “valutare contatti diretti con il regime iraniano”. Saltato quindi l’incontro con Volodymyr Zelensky, a ulteriore conferma di quanto il fronte ucraino sia ormai passato in secondo piano nell’agenda statunitense. Le priorità sono cambiate: l’attenzione si è spostata sul conflitto potenziale – o imminente – con Teheran.
Trump ha affermato che “i leader iraniani vorrebbero parlare”, ma ha al contempo ricordato che “hanno avuto 60 giorni per trovare un’intesa e non ci sono riusciti prima dell’attacco israeliano”. Parole che sembrano preparare il terreno a un’escalation ulteriore, facendo dell’Iran il capro espiatorio ideale per giustificare nuovi interventi o sanzioni. Nel frattempo, si ipotizza un canale di contatto tra il ministro degli Esteri iraniano Araghchi e l’inviato Usa Witkoff, ma l’atmosfera è tutt’altro che distensiva.
Una strategia che alimenta l’instabilità
Il vero paradosso della dichiarazione del G7 è l’uso disinvolto del concetto di “de-escalation”, che contrasta con la realtà delle azioni politiche e militari sostenute dagli stessi firmatari. In nome della “sicurezza di Israele”, si continua a tollerare – se non a incentivare – l’uso indiscriminato della forza, mentre si inchioda l’Iran a un ruolo univoco di destabilizzatore, senza alcuna apertura reale a un processo di negoziazione multilaterale.
Nel contesto di un ordine globale che si va rapidamente ridefinendo, questa presa di posizione sembra più una prova di fedeltà atlantica che un serio tentativo di mediazione. Il G7, ancora una volta, mostra i suoi limiti: non più foro di cooperazione globale, ma strumento di riproposizione di un’egemonia politica e militare ormai in affanno.
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