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Negli ultimi giorni, Ballymena (Irlanda del Nord) è stata scossa da disordini razziali dopo l’arresto di due adolescenti romeni. La crisi riflette tensioni migratorie e sociali più ampie in Europa, evidenziate anche dal referendum italiano sulla cittadinanza che ha mostrato divisioni nel campo progressista.
Disordini in Irlanda del Nord e il problema migratorio in Europa
Negli ultimi giorni, la cittadina di Ballymena, in Irlanda del Nord, è stata teatro di violenti disordini a sfondo razziale, scoppiati dopo l’arresto di due adolescenti di origine romena accusati di tentato stupro. Centinaia di manifestanti, alcuni mascherati, hanno attaccato case di migranti, incendiato auto e lanciato molotov contro la polizia, che ha risposto con idranti e proiettili di gomma.
Quindici agenti sono rimasti feriti, e la comunità romena locale ha vissuto momenti di terrore, con famiglie barricate in casa sotto l’assedio di una folla inferocita. Questi eventi, che si inseriscono in un contesto di tensioni post-Brexit e divisioni storiche tra unionisti e nazionalisti, riflettono un malcontento più ampio, percepito in tutta Europa, verso le politiche migratorie.
Il problema migratorio: realtà e percezione
Il fenomeno migratorio è una delle questioni più divisive in Europa. Secondo Eurostat, nel 2023 circa 2,6 milioni di persone sono immigrate nell’UE, con 1,14 milioni di domande di asilo. Sebbene gli immigrati contribuiscano positivamente alle economie, come evidenziato dall’OCSE, la pressione su servizi, lavoro e coesione sociale in aree già fragili alimenta una percezione negativa.
In Irlanda del Nord, i disordini di Ballymena non sono solo una reazione a un episodio di cronaca, ma il sintomo di un disagio più profondo, amplificato da narrazioni che collegano immigrazione a criminalità o perdita d’identità.
Questo sentimento è condiviso in molte periferie europee, dove la competizione per risorse scarse, aggravata da tagli al welfare e aumento della spesa militare, in attesa di una invasione russa che non arriverà mai (240 miliardi di euro nell’UE nel 2023, secondo l’EDA), rende gli immigrati un facile capro espiatorio.
Il referendum italiano sulla cittadinanza
In Italia, il referendum dell’8-9 giugno 2025 sulla cittadinanza, uno dei cinque quesiti abrogativi, ha messo in luce questa tensione. Il quesito, proposto da +Europa e sostenuto da PD, Alleanza Verdi e Sinistra, chiedeva di ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza legale per gli extracomunitari maggiorenni per richiedere la cittadinanza.
Nonostante un’affluenza del 30,6% (ben lontana dal quorum del 50%+1), il “Sì” ha ottenuto il 65%, ma il 35% di “No” (circa 5,2 milioni di voti) è un dato significativo, soprattutto considerando che l’elettorato referendario era prevalentemente progressista, data l’astensione promossa dalla destra.
Questo risultato rivela una contraddizione nel campo progressista: anche tra chi si identifica con la sinistra, una parte rilevante nutre riserve sull’immigrazione. Nelle periferie e nei piccoli centri, dove l’affluenza è stata più bassa (es. Sicilia 23,1%, Calabria 27%), il “No” ha trovato terreno fertile, mentre il “Sì” ha prevalso nelle città centrali come Firenze (46%) e Bologna (47,7%).
Come dichiarato da Sonny Olumati, ballerino ed attivista di Italiani senza cittadinanza, “Non me ne andrò dall’Italia, continuerò a combattere per i diritti, anche se la battaglia è lunga”. La sua determinazione sottolinea la distanza tra le aspirazioni inclusive dei promotori del referendum e il sentimento di una parte dell’elettorato.
La contraddizione del campo progressista
Il Partito Democratico e la sinistra hanno sostenuto il referendum come una battaglia di civiltà, ma non hanno colto il disagio di una fetta del loro elettorato, che percepisce l’immigrazione come una minaccia in un contesto di crisi economica e tagli ai servizi.
Il Movimento 5 Stelle, invece pragmaticamente, lasciando libertà di voto, ha mostrato maggiore sensibilità verso il malcontento, specialmente al Sud, dove l’affluenza è stata più bassa. La destra, con figure come Matteo Salvini, ha capitalizzato su questo sentimento, promuovendo l’astensione e messaggi come “la cittadinanza non è un regalo”. Praticamente un rigore a porta vuota regalato ad una destra che vive solo di slogan.
La sinistra sembra intrappolata in un paradosso: da un lato, promuove valori inclusivi, dall’altro, non riesce a dialogare con le periferie, dove la rabbia non è solo xenofobia, ma il riflesso di un abbandono sociale. C’è una evidente spaccatura tra elettorato ed “élite di sinistra” sul tema migratorio, che i partiti progressisti non hanno affrontato apertamente, lasciando spazio alla destra per monopolizzare il discorso.
Non si riesce a comprendere che in un contesto di crisi economica il disagio si trasforma in rabbia e l’immigrato, che spesso non è manco integrato, diventa il capro espiatorio più visibile.
I disordini di Ballymena e il risultato del referendum italiano sono due facce della stessa medaglia: il malcontento verso le politiche migratorie, reale o percepito, sta mettendo alla prova la coesione sociale in Europa. Per i progressisti, la sfida è superare l’approccio ideologico e aprire un dialogo che affronti le paure senza cedere a narrazioni populiste.
Politiche che rafforzino il welfare, riducano la competizione per le risorse e promuovano un’integrazione concreta sono essenziali per sanare questa frattura. Insomma invece di votare a favore di Rearm Europe, inseguire la Picierno e la Cheerleaders Kallas, è necessario tornare nelle periferie, con le care e vecchie sezioni di partito, e promuovere con i fatti politiche per il bene comune. Altrimenti il rischio sono tensioni sociali che presto diventeranno ingovernabili.
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