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Con un decreto del 20 maggio, Milei limita il diritto di sciopero in Argentina, ampliando i “servizi essenziali” e svuotando di fatto la protesta sociale. Una strategia autoritaria mascherata da efficienza, che indebolisce i sindacati e strizza l’occhio ai mercati.
Milei contro il diritto di sciopero: il volto autoritario della “libertà” argentina
In un’Argentina logorata da inflazione cronica, debito estero e paralisi istituzionale, il presidente Javier Milei ha aperto un nuovo fronte politico e ideologico: l’attacco diretto al diritto di sciopero. Il 20 maggio 2025, con un decreto presidenziale, Milei ha infatti ampliato in maniera significativa la lista dei cosiddetti “servizi essenziali” in cui il diritto di astensione dal lavoro viene fortemente limitato. Tra questi figurano l’istruzione, i trasporti, le telecomunicazioni, la logistica, il fisco e perfino la pubblica amministrazione.
La misura, presentata come necessaria per garantire l’efficienza dello Stato, cela in realtà un progetto ben più profondo: quello di smantellare il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali e ridisegnare i rapporti sociali secondo una dottrina neoliberista estrema. In nome di un capitalismo “senza freni” e di una presunta razionalizzazione dello Stato, Milei tenta di neutralizzare ogni forma di dissenso strutturato, colpendo al cuore uno dei principali strumenti di lotta dei lavoratori.
Questa mossa non arriva in un vuoto politico. In meno di due anni di presidenza, il governo Milei ha affrontato ben tre scioperi generali, segno di una crescente resistenza sociale alle sue politiche di tagli brutali alla spesa pubblica.
In questo contesto, imporre un “servizio minimo obbligatorio fino al 75%” nei settori strategici significa, di fatto, svuotare lo sciopero della sua efficacia. Il decreto presidenziale non è un mero atto tecnico, ma un gesto di guerra ideologica: una dichiarazione di ostilità verso il sindacalismo argentino, storicamente uno dei pilastri della democrazia sociale del Paese.
Diversamente dal “mega-decreto” del dicembre 2023, bocciato dalla Corte Suprema per evidenti violazioni costituzionali, questa volta Milei ha scelto una strategia più accorta. Come evidenzia Giuseppe Gagliano, il presidente ha operato attraverso gli strumenti giuridici esistenti, evitando rotture formali e optando per una reinterpretazione delle norme. Si tratta di un modus operandi tipico del neo-autoritarismo contemporaneo: muoversi all’interno della legalità apparente per minare le fondamenta della partecipazione democratica.
Ma il messaggio va oltre i confini argentini. Con questa misura, Milei manda un segnale chiaro a FMI, mercati e investitori internazionali: l’Argentina è pronta a rinunciare al suo passato “corporativo” per trasformarsi in una piattaforma ultraliberista funzionale agli interessi del capitale globale. Il sacrificio? La sovranità sociale, la coesione interna e il diritto dei lavoratori alla protesta.
La narrazione promossa dal governo insiste su una contrapposizione semplicistica: da un lato il “popolo produttivo”, dall’altro la “burocrazia parassitaria”. Una retorica che cerca consensi nel malcontento diffuso, ma che ignora volutamente la realtà concreta: un Paese in cui l’inflazione a tre cifre ha devastato il potere d’acquisto, la classe media è in caduta libera e la povertà si espande. In un simile contesto, lo sciopero resta spesso l’unica forma di voce e dignità per chi è escluso dai circuiti del potere.
Dietro la promessa di “distruggere la casta”, si profila invece un progetto di controllo verticale delle istituzioni e di cancellazione progressiva dei contropoteri. Il rischio? Un’Argentina formalmente libera, ma sostanzialmente priva di democrazia reale. O, nel peggiore dei casi, un’esplosione sociale dagli esiti imprevedibili.
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