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Il nuovo Obiettivo 4 del Piano Strategico per le Aree Interne rinuncia allo sviluppo e propone un “accompagnamento dignitoso” al declino. Ma il destino non è segnato: esperienze virtuose dimostrano che investire nei territori è possibile. Serve una visione diversa.
Aree interne, lo Stato getta la spugna: il declino non è destino. Critica all’Obiettivo 4 del Piano Strategico Nazionale
C’è un’Italia che lentamente scompare dalle mappe, svuotata di persone, servizi, scuole e diritti. È l’Italia delle aree interne, quasi il 60% del territorio nazionale, dove vive circa un quarto della popolazione. Il nuovo Obiettivo 4 del Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (SNAI) dovrebbe occuparsi proprio di queste terre. Ma anziché rilanciarle, sembra volerle accompagnare al funerale.
L’idea di fondo è inquietante: dove il calo demografico appare “irreversibile”, lo Stato non investirà più in strategie di sviluppo, ma offrirà un “accompagnamento socialmente dignitoso” al declino. Un’espressione che ha già suscitato reazioni forti: resa pianificata, abbandono istituzionalizzato, eutanasia demografica. Ma al di là delle formule, il rischio è concreto: decretare con un atto amministrativo quali territori meritano futuro e quali no.
Il declino non è un dato naturale
Il primo errore dell’Obiettivo 4 è considerare il declino come un dato neutro, inevitabile, al quale ci si deve solo “adattare”. In realtà, lo spopolamento è il frutto di precise scelte politiche. Decenni di centralizzazione, tagli lineari ai servizi locali, smantellamento dei trasporti pubblici hanno reso molte aree interne invivibili.
Basta citare un caso emblematico: la Sila greca, in Calabria, dove tra il 2001 e il 2021 si è perso oltre il 30% della popolazione residente. Ma in quello stesso territorio, grazie a un progetto SNAI avviato nel 2018, sono nati laboratori artigianali, coworking, agricoltura sociale e una nuova cooperativa di comunità. I giovani sono tornati. I dati ci dicono che dove si investe con intelligenza, si inverte la rotta.
Una visione che ignora l’Agenda 2030
L’obiettivo 4 contrasta apertamente con i principi dell’Agenda ONU 2030, soprattutto con gli Obiettivi 10 e 11, che parlano chiaramente di città e comunità sostenibili e della necessità di ridurre le disuguaglianze territoriali. Non si può ridurre la sostenibilità a una formula urbana o metropolitana. Le aree interne sono parte della soluzione, non un problema da contenere.
Al contrario, nel testo strategico non si fa cenno a modelli abitativi alternativi – come il cohousing rurale, le comunità energetiche, le smart villages – né si menzionano forme di lavoro agile o remote working che, dal post-Covid in poi, avrebbero potuto essere una leva concreta per il ripopolamento. Non si parla di rigenerazione, ma solo di gestione del tramonto.
Eppure, le alternative ci sono già
In Italia esistono esperienze virtuose che dimostrano che il declino non è una condanna, ma una sfida politica. Alcuni esempi:
- Riace (Calabria): il modello di accoglienza diffusa e inclusione ha ridato vita a un borgo spopolato, generando economia e ripopolamento.
- Castel del Giudice (Molise): sono stati recuperati immobili abbandonati, avviate una casa di riposo in economia sociale e una scuola innovativa, attratte imprese agricole e turistiche.
- Val Camonica (Lombardia): il progetto “Borghi del Respiro” ha unito tutela ambientale, sviluppo turistico e rigenerazione culturale.
Tutte queste esperienze dimostrano che una strategia per la vita è possibile. Ma richiede investimenti, fiducia e soprattutto una visione diversa.
La paesologia: quando la cultura resiste allo spopolamento
Tra le voci più lucide contro l’abbandono delle aree interne c’è Franco Arminio, poeta e fondatore della paesologia, una disciplina che restituisce senso e dignità ai piccoli paesi. Attraverso festival, cammini e iniziative culturali, Arminio anima borghi dimenticati dell’Irpinia, trasformando ogni evento in un atto politico di resistenza. Per lui, i paesi non muoiono solo per mancanza di persone, ma per perdita di senso. La sua è una visione in cui la cultura diventa infrastruttura civile, capace di generare legami e futuro, ma ancora ignorata dalle strategie istituzionali.
Una logica selettiva e pericolosa
La retorica dell’“accompagnamento dignitoso”, subdolamente compassionevole, è invece profondamente discriminatoria. Chi decide quali territori sono “salvabili”? In base a quali criteri si stabilisce che un borgo in Appennino non ha più speranza, mentre una periferia metropolitana sì?
Se accettiamo questo principio, domani potremmo trovarci a programmare lo spegnimento dei servizi sanitari in zone a bassa densità, a chiudere scuole per mancanza di iscritti senza progettare nuovi modelli, o a negare infrastrutture digitali perché “non convenienti”. In breve, una cittadinanza a geometria variabile, che contraddice l’articolo 3 della Costituzione.
Un impegno culturale, non solo politico
Non si tratta solo di demografia. Si tratta di scelte culturali. Vogliamo un’Italia sempre più accentrata, dove il valore è dettato dalla densità abitativa e dal PIL? O vogliamo credere che anche un piccolo borgo sull’Appennino abbia un ruolo nel costruire un futuro più giusto, umano e sostenibile?
L’Obiettivo 4, così com’è, non serve a salvare le aree interne, ma a renderne accettabile la scomparsa. È una narrazione tossica che va respinta, perché rinunciare a questi territori significa rinunciare a parte dell’anima del Paese.
Accompagnare non basta. Bisogna scegliere di restare. E investire per tornare.
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