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Sanzioni Usa ai giudici della Corte penale internazionale: vietato indagare su Netanyahu

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Gli USA sanzionano 4 giudici della Corte penale internazionale per aver autorizzato indagini su crimini di guerra commessi da Israele e USA. La CPI difende il suo operato, mentre l’Europa si schiera a sua difesa. Washington rilancia l’attacco al diritto internazionale.

Sanzioni Usa ai giudici della Corte penale internazionale

Gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro quattro giudici della Corte penale internazionale (CPI), colpevoli – secondo Washington – di aver autorizzato «azioni illegittime» nei confronti di USA e del loro alleato Israele.

Il provvedimento, comunicato dal segretario di Stato Marco Rubio, si inserisce in una campagna di pressione politica iniziata sotto l’amministrazione Trump e riaccesasi con forza dopo i recenti mandati di arresto emessi dalla Corte nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusati di crimini di guerra a Gaza.

I giudici sanzionati sono Solomy Balungi Bossa (Uganda), Luz del Carmen Ibáñez Carranza (Perù), Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou (Benin) e Beti Hohler (Slovenia).

Due di loro hanno autorizzato i mandati di arresto per i dirigenti israeliani, mentre gli altri due avevano precedentemente avallato indagini sui crimini di guerra commessi dall’esercito statunitense in Afghanistan.

Secondo il Dipartimento di Stato, l’operato di questi giudici sarebbe “politicizzato” e orientato contro Washington e Tel Aviv. «In qualità di giudici della CPI», ha dichiarato Rubio, «questi quattro individui hanno attivamente preso parte alle azioni infondate e illegittime della Corte contro l’America e Israele». La narrazione dell’amministrazione statunitense – ancora fortemente influenzata dalla linea trumpiana – descrive l’organo giudiziario dell’Aia come uno strumento ostile, privo di legittimità e ostacolo alla “sovranità” nazionale.

L’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha condannato le sanzioni, chiedendone l’immediato ritiro. Anche la Corte penale internazionale ha risposto con fermezza, ribadendo il pieno sostegno al proprio personale e il proprio impegno nel «rendere giustizia alle vittime di crimini di guerra».

Sul versante opposto, l’ufficio di Netanyahu ha espresso gratitudine all’amministrazione Trump per aver agito contro una presunta “persecuzione giudiziaria”, definendo i giudici sanzionati come politicizzati e ostili. La mossa, tuttavia, ha sollevato indignazione tra gli alleati europei, alcuni dei quali – come Slovenia e Belgio – hanno richiesto l’attivazione dello “statuto di blocco”, uno strumento dell’Unione europea per proteggere istituzioni e individui dalle sanzioni extraterritoriali imposte da potenze terze.

Il contesto si inserisce in un più ampio clima di ostilità transatlantica, alimentato dalla divergenza tra il rispetto delle norme del diritto internazionale e l’approccio unilaterale e sovranista promosso dagli Stati Uniti sotto Trump. Mentre la CPI cerca di affermare la sua giurisdizione universale, indagando su crimini commessi tanto da regimi autoritari quanto da democrazie occidentali, gli Stati Uniti reagiscono squalificandone l’autorità, specie quando le indagini coinvolgono personale militare statunitense o alleati strategici.

Nel frattempo, emerge l’ipocrisia di certi governi europei. Un esempio eclatante arriva dalla Libia: Osama Najeem Elmasri, accusato dalla CPI di crimini contro l’umanità, è stato arrestato in Italia ma subito rilasciato dalla Corte d’Appello di Roma, che ha rifiutato l’estradizione in assenza dell’imputato. Un episodio che solleva interrogativi sull’efficacia e la coerenza dell’applicazione del diritto penale internazionale.

Mentre negli Stati Uniti si militarizzano le città contro le proteste anti-immigrazione – come a Los Angeles, dove la Guardia nazionale ha sparato proiettili di gomma contro i manifestanti – l’amministrazione Trump continua a perseguire una visione del potere in cui la giustizia internazionale è subordinata agli interessi geopolitici.

Una strategia che mina i fondamenti stessi del diritto internazionale e che rischia di lasciare impuniti i crimini più gravi, a patto che siano commessi dai “padroni del mondo”.

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