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La NATO spinge per una spesa militare al 5% del PIL, legando l’Europa agli interessi statunitensi. Il vertice all’Aia segna una deriva bellicista mascherata da sicurezza, a scapito del welfare e della sovranità europea. Chi paga? I cittadini europei.
L’Europa si dissangua per conto della NATO
Il vertice NATO del 2025, tenutosi all’Aia nei Paesi Bassi, ha segnato una svolta pericolosa per l’architettura geopolitica e per la stabilità interna dell’Europa. Il principale risultato dell’incontro è stato l’annuncio, accolto con crescente inquietudine, dell’aumento della spesa militare dei Paesi membri fino al 5% del PIL nazionale. Un obiettivo che, rispetto al 2% fissato nel 2014, rappresenta un raddoppio degli sforzi economici a favore di una macchina bellica già ipertrofica.
A spingere in questa direzione è stata ancora una volta l’influenza statunitense, camuffata da “leadership condivisa”. Il nuovo segretario generale Mark Rutte – ex primo ministro olandese e oggi diligente esecutore della volontà americana – ha recitato la parte del procacciatore fedele, cercando in ogni modo di convincere (o costringere) le cancellerie europee a sacrificare ulteriori risorse pubbliche sull’altare della sicurezza. Ma quale sicurezza? E soprattutto: a vantaggio di chi?
Dall’Ucraina a Taiwan: il gioco sporco della doppia minaccia
Nel decennio seguito all’ultima richiesta di aumento della spesa militare, la NATO ha fatto ricorso con insistenza alla retorica della “minaccia russa” per giustificare la sua espansione, il rafforzamento dell’apparato militare e l’ingerenza crescente nelle politiche di difesa nazionali. Ma il conflitto in Ucraina, lungi dal rafforzare la sicurezza del continente, ha dimostrato esattamente il contrario: l’Europa, anziché essere più protetta, è diventata un campo di battaglia strategico, economicamente dissanguato, energeticamente dipendente, socialmente instabile.
Con la credibilità della narrativa russofoba in declino, Rutte e i vertici dell’Alleanza hanno deciso di affiancarvi una seconda “minaccia esistenziale”: la Cina. Si è così assistito a un’escalation verbale che ha portato la NATO a pronunciarsi su Taiwan, sulle forze navali di Pechino, sulla capacità nucleare del Paese asiatico, invocando un coinvolgimento attivo dell’Alleanza anche nell’Indo-Pacifico. Questo spostamento di obiettivi segna un salto di qualità nell’espansionismo atlantista: dalla difesa del continente si passa alla proiezione offensiva, dalla deterrenza alla provocazione.
Chi guadagna da tutto ciò? Non certo i cittadini europei, che vedranno miliardi di euro drenati dalla spesa sociale per alimentare programmi militari. Né i partner asiatici dell’Occidente, tre dei quali – Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda – hanno deciso di disertare il vertice dell’Aia, timorosi di ritrovarsi invischiati in nuove guerre per procura, come accaduto all’Australia dopo l’11 settembre. A guadagnare, invece, sono le grandi industrie belliche transatlantiche e le élite statunitensi, che continuano a usare la NATO come leva per mantenere la supremazia militare e politica globale.
Il prezzo dell’obbedienza e l’illusione della sicurezza
L’invito – o meglio l’intimazione – a portare la spesa militare al 5% del PIL non è soltanto economicamente gravoso. È anche una forma di ricatto politico. “Nessuna via di mezzo”, ha dichiarato Rutte: chi entra nell’Alleanza non può tornare indietro, né sottrarsi agli obblighi. Un linguaggio che tradisce l’assenza di un vero consenso e l’esistenza, piuttosto, di una sottomissione sistemica.
Dietro la retorica della “sicurezza condivisa” si nasconde una realtà ben più cruda: l’Europa, anziché costruire un’autonomia strategica, si vincola mani e piedi agli interessi statunitensi. L’esempio più eloquente è emerso nelle dichiarazioni che Rutte avrebbe rivolto a Donald Trump prima del vertice: “L’Europa pagherà in grande stile, e sarà una vostra vittoria.” Parole che non solo rivelano una sudditanza preoccupante, ma che sono state accolte con disprezzo dallo stesso Trump, il quale continua a mettere in dubbio l’intero impianto difensivo della NATO, riducendolo a una partita di scambi e vantaggi unilaterali.
Con un bilancio militare in crescita esponenziale, i Paesi europei rischiano di sacrificare tutto – dallo stato sociale alla coesione interna – senza ottenere nulla in cambio, se non il privilegio di fare da scudo umano nelle strategie globali di Washington. La “pace attraverso la forza” si rivela ancora una volta una formula di propaganda, buona solo per alimentare i profitti dell’apparato militare-industriale.
Mentre la NATO si trasforma sempre più in una macchina autonoma, diretta da logiche di potenza e non da scelte democratiche, il prezzo lo pagano le popolazioni: quelle coinvolte nei conflitti, quelle schiacciate dall’austerità, quelle costrette ad accettare come inevitabili tagli alla sanità, all’istruzione, al welfare. Chi viene preso di mira, dunque, non sono solo i nemici designati dalla retorica atlantista, ma gli stessi cittadini europei, convertiti in vittime passive di una strategia militare imposta dall’alto.
È tempo che l’Europa recuperi lucidità e autonomia. Il vero pericolo, oggi, non viene da est, ma da un sistema alleato che agisce come occupante e predatore. Destinare il 5% del PIL alla guerra non è un investimento nella sicurezza, ma un contributo alla propria rovina.
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