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Netanyahu, lo Shin Bet e la milizia anti-Hamas: come Israele arma l’ISIS per destabilizzare Gaza

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Israele arma una milizia palestinese guidata da Abu Shabab, criminale salafita legato alla tribù Tarabin, per combattere Hamas a Gaza. Il gruppo, sostenuto dallo Shin Bet e da Netanyahu, saccheggia aiuti umanitari e si inserisce in una strategia storica di collaborazione forzata.

Netanyahu, lo Shin Bet e la milizia anti-Hamas

In un mosaico di cinismo geopolitico, strategie militari e manipolazione del dissenso interno, emergono notizie sempre più inquietanti riguardo il coinvolgimento diretto del governo israeliano nella creazione e nel finanziamento di una milizia palestinese all’interno della Striscia di Gaza. Un’operazione che, secondo fonti giornalistiche come Yedioth Ahronoth, il Manifesto e il Post, è stata pianificata dallo Shin Bet – l’intelligence interna israeliana – e approvata personalmente da Benjamin Netanyahu, senza passare dal gabinetto di sicurezza per evitare l’opposizione dell’estrema destra al governo.

Il gruppo in questione si fa chiamare “Forze Popolari” o “Servizio Antiterrorismo“, e il suo capo, Yasser Abu Shabab, rappresenta una figura emblematica del caos morale e strategico che regna nel sud di Gaza. Descritto da più fonti come un criminale noto, fuggito da una prigione di Hamas distrutta dai bombardamenti israeliani, Abu Shabab guida oggi un centinaio di uomini armati da Tel Aviv, presumibilmente con Kalashnikov e mitragliatrici leggere. La loro missione ufficiale è contrastare Hamas e “proteggere i civili”, ma la realtà appare ben più complessa e pericolosa.

Collaborazionismo, clan e controllo umanitario

Il piano israeliano si articola su più livelli: da un lato, l’indebolimento di Hamas attraverso la cooptazione di elementi locali marginali o oppositori interni; dall’altro, il controllo diretto della distribuzione di aiuti umanitari tramite enti come la Gaza Humanitarian Foundation, che agiscono in coordinamento con l’esercito israeliano. In questo contesto, Abu Shabab e i suoi uomini sarebbero responsabili di razzie e saccheggi di magazzini di aiuti, poi rivenduti al mercato nero, come riportato da più fonti palestinesi e internazionali. L’obiettivo implicito sembra essere duplice: marginalizzare Hamas e, nel contempo, mantenere la popolazione in uno stato di dipendenza e precarietà assoluta.

Il capo milizia è legato alla tribù beduina dei Tarabin, già nota per storici rapporti di collaborazione con Israele sin dai tempi dell’occupazione del Sinai. La stessa tribù, però, ha preso le distanze dalle sue azioni più recenti, segno di una frattura interna e di un uso strumentale del tribalismo da parte di Tel Aviv.

Dall’ISIS al Libano del Sud: una strategia ricorrente

A rendere ancora più controversa la vicenda è il sospetto, lanciato dall’ex ministro israeliano Avigdor Lieberman, che la milizia guidata da Abu Shabab abbia legami ideologici con ambienti salafiti e persino con lo Stato Islamico.

Anche se non vi sono prove conclusive al riguardo, resta il fatto che l’ideologia del gruppo è dichiaratamente salafita, e il profilo di molti membri sembra più affine alla criminalità organizzata che a un progetto di stabilizzazione. È il classico schema israelo-americano: finanziare formazioni radicali per combattere nemici più scomodi, salvo poi pagarne le conseguenze a lungo termine.

Il parallelo con l’operazione nel Libano del Sud è inevitabile. Per decenni, Israele ha armato milizie maronite e l’Esercito del Libano del Sud per contrastare l’OLP e, in seguito, Hezbollah. Quell’esperimento si concluse con un rovinoso ritiro nel 2000 e il crollo repentino della milizia filo-israeliana, lasciando spazio all’ascesa definitiva del movimento sciita.

Hamas, Fatah e la spirale dell’interventismo

Non è la prima volta che Israele cerca di manipolare gli equilibri interni della politica palestinese. Già negli anni Ottanta, la tolleranza iniziale verso la nascita di Hamas fu motivata dalla volontà di indebolire Fatah, allora dominante.

Oggi, il copione si ripete a parti invertite: creare una milizia filo-Fatah per destabilizzare Hamas. Abu Shabab ha persino affermato che le sue azioni avvengono sotto la guida dell’Autorità Nazionale Palestinese, un’entità screditata tra i palestinesi per inefficienza e corruzione, ma sostenuta dalla comunità internazionale e da Israele.

La differenza è che oggi lo scenario è molto più frammentato. Gaza è ridotta in macerie da venti mesi di bombardamenti, la popolazione è stremata dalla fame e dalla mancanza di prospettive, e il terreno è fertile per qualsiasi forma di disperata sopravvivenza. Con una paga mensile di 650 dollari – secondo fonti israeliane – e l’accesso alle armi, molti giovani potrebbero essere tentati di unirsi a questo nuovo apparato di potere armato.

L’ennesima fiamma nel deserto

Ciò che emerge con chiarezza è la continuità di una strategia israeliana fondata sul principio “divide et impera”, ora declinato nella forma più rischiosa possibile: armare bande di criminali locali per creare un contro-potere interno a Gaza. Netanyahu, sempre più isolato sul piano internazionale e sotto pressione interna, sembra pronto a giocare qualsiasi carta pur di evitare una soluzione politica duratura che implichi una vera sovranità palestinese.

La creazione di una milizia come quella di Abu Shabab non rappresenta una soluzione, ma un ulteriore atto di destabilizzazione che potrebbe sfuggire di mano in qualunque momento. Le ombre dell’ISIS e del Libano del Sud tornano a proiettarsi su Gaza. E questa volta, con una popolazione civile già allo stremo, il prezzo potrebbe essere ancora più alto.

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