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Los Angeles contro Trump: la guerra civile americana è già cominciata

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A Los Angeles esplode lo scontro tra autorità locali e presidenza Trump: dietro le proteste contro l’ice si cela una frattura storica che riporta in scena la guerra civile americana, questa volta tra metropoli progressiste e provincia reazionaria.

Los Angeles contro Trump

Los Angeles brucia. Non di fiamme, ma di una rabbia politica e sociale che cova da anni, ed è ora esplosa in forme che ricordano fin troppo da vicino gli echi del passato più violento e fratricida degli Stati Uniti: la Guerra di Secessione.

Nelle strade della metropoli californiana, mentre manifestanti si scontrano con le forze federali inviate da Trump per “ristabilire l’ordine”, si consuma un passaggio storico: quello da conflitto latente a vera e propria guerra civile strisciante.

Il casus belli, in apparenza, è l’ICE — l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione — e le sue pratiche brutali nei confronti dei migranti. Ma ridurre questa insurrezione urbana a una questione di immigrazione significherebbe ignorarne le radici profonde, strutturali, culturali.

Quelle che risalgono al XIX secolo, quando due modelli di civiltà si scontrarono sul suolo americano: da una parte il Sud agricolo, identitario, conservatore; dall’altra il Nord industriale, progressista, attrattivo per milioni di migranti europei.

Oggi, a distanza di più di 150 anni, quegli stessi vettori di frattura si sono reincarnati in nuove forme. La contrapposizione non è più geografica — Nord contro Sud — bensì socio-economica e culturale: megalopoli multietniche, collegate all’economia globale, contro province interiori impoverite, disilluse e impaurite.

Da una parte, l’America dei diritti civili, dell’internazionalismo liberale, delle élite accademiche e finanziarie; dall’altra, l’America del risentimento, della protezione identitaria, della nostalgia reazionaria.

La California, e Los Angeles in particolare, è l’epicentro di questa frattura. Qui, l’amministrazione locale ha assunto ormai toni insurrezionali. La sindaca e il governatore non si limitano a criticare le misure federali: parlano esplicitamente di “dittatura” e “resistenza democratica”. Non si tratta solo di retorica politica. È un linguaggio di guerra.

E Trump, come un generale di un altro secolo, risponde con il richiamo all’Insurrection Act, la vecchia legge del 1807 che consente al presidente di schierare l’esercito contro i cittadini americani. La storia, si direbbe, non si ripete mai uguale. Ma spesso rima con se stessa.

Quel che accade a Los Angeles è solo la punta dell’iceberg. A Seattle, Chicago, Philadelphia e in altre città a guida democratica, si delinea la stessa dinamica: un fronte urbano che si oppone frontalmente all’autorità centrale. Si afferma una narrazione polarizzata e apocalittica: noi siamo la civiltà, loro la barbarie.

Quando il confronto politico perde il terreno comune del compromesso e diventa un conflitto di valori non negoziabili, ogni mediazione diventa un tradimento. E la politica si trasforma in guerra civile permanente.

La ‘rivoluzione colorata’ della California, ma non si può dire…

L’ironia amara — se così si può chiamare — sta nel fatto che, se una simile crisi si stesse verificando in qualsiasi altro Paese del mondo, i media occidentali l’avrebbero già battezzata come “rivoluzione colorata”. Avrebbero dipinto i manifestanti come “paladini della democrazia” e denunciato la repressione del “regime autoritario”.

Ma quando a insorgere è la città degli angeli, e il potere da rovesciare è quello della Casa Bianca, il linguaggio cambia. Nessuno a Washington distribuirà biscotti ai rivoltosi, come fece Victoria Nuland a Kiev nel 2014. E nessun inviato europeo si affretterà a benedire le barricate di Echo Park.

In fondo, questa ipocrisia è essa stessa un segno del tramonto americano. Il motore globale della democrazia liberale è inceppato. L’America che imponeva “transizioni democratiche” con i droni e le ONG, oggi fatica a garantire la propria. La narrazione universalista del “sogno americano” si frantuma contro il muro della propria realtà interna: una società spaccata, dove le istituzioni non sono più viste come arbitri, ma come armi in mano ai contendenti.

E se il conflitto non esploderà apertamente — se non ci saranno colonne di blindati lungo la Route 66 o milizie in marcia sui campi del Midwest — ciò non significa che non ci troviamo già dentro una guerra. È una guerra senza dichiarazione, senza trincee, ma con tutte le sue conseguenze: disgregazione istituzionale, delegittimazione reciproca, militarizzazione delle strade, propaganda endemica.

Il vero rischio, però, è che anche il resto del mondo continui a illudersi che tutto questo sia solo un momento passeggero. Che basti un cambio alla Casa Bianca per riportare ordine e armonia. Ma le guerre civili — quelle vere — non nascono mai da un tweet o da una provocazione. Sono il prodotto di faglie profonde che attraversano la società. E in America, oggi, quelle faglie non solo sono aperte, ma si allargano ogni giorno.

Forse non vedremo una nuova Gettysburg. Ma il sangue che bagna le strade di Los Angeles è già sufficiente a ricordarci che, quando una democrazia si autodivora, non lo fa mai in silenzio.

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