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L’Occidente finge una svolta su Gaza scaricando Netanyahu, ma l’obiettivo è ripulire l’immagine di Israele, non fermare il genocidio. Nessuna vera rottura con l’occupazione: solo ipocrisia e paternalismo verso un popolo che chiede giustizia, non carità.
Salvare Israele, non i Palestinesi: l’ipocrisia occidentale tra parole e complicità
Nelle ultime settimane, osservando l’evoluzione della narrazione su Gaza nei media occidentali, si potrebbe pensare che qualcosa stia davvero cambiando. Termini come genocidio, pulizia etnica, apartheid, un tempo relegati ai margini del dibattito e bollati come retorica estremista, o più spesso come “antisemitismo“, sono oggi pronunciati con sempre maggiore disinvoltura da giornalisti, opinionisti e perfino da esponenti politici.
In Italia, trasmissioni mainstream come DiMartedì e Le Iene, quotidiani come La Repubblica, e conduttori come Floris, sembrano essersi svegliati da un lungo torpore. Ma dietro questa apparente presa di coscienza si cela un disegno preciso: salvare l’immagine di Israele, non la vita dei palestinesi.
L’illusione del risveglio morale
La timida indignazione di certi settori del centro e della destra moderata — basti pensare alla recente dichiarazione del ministro Tajani, secondo cui la reazione israeliana sarebbe “inaccettabile” — non è accompagnata da alcuna conseguente azione politica. Si tratta, piuttosto, di una manovra cosmetica: un maquillage retorico buono per salvare la reputazione di governi e alleati occidentali, sempre più esposti all’accusa di complicità nel massacro.
Per oltre un anno e mezzo, Tajani e molti altri si sono mossi in perfetta sintonia con le scelte dello Stato israeliano, sostenendone le operazioni militari con zelo e silenzio complice. Oggi, quando la distruzione di Gaza è ormai compiuta sotto gli occhi di tutti, si ergono a critici, ma solo per scaricare le responsabilità su una figura sola: Benjamin Netanyahu.
Questo passaggio di testimone nella narrazione non è affatto innocente. Concentrando tutta la colpa sul primo ministro israeliano e sulla sua coalizione di estrema destra, si evita accuratamente di mettere in discussione l’ideologia sionista, le pratiche sistemiche di occupazione, e la struttura stessa dello Stato israeliano.
È un tentativo di salvaguardare il mito fondativo di Israele, separandolo artificialmente dai crimini presenti. In altre parole, l’obiettivo non è fermare il genocidio, ma proteggerne la legittimità ideologica di fondo.
Ripulire Israele, neutralizzare la Palestina
Il vero pericolo di questa “svolta” narrativa è che essa si fonda su una logica paternalistica e disinnescante. L’Occidente non riconosce i palestinesi come soggetti politici, ma come vittime passive da compiangere. Il dolore viene umanizzato, ma mai politicamente legittimato.
Il massimo dell’empatia ammessa consiste nel versare lacrime per i bambini uccisi, ma senza mai discutere a fondo le radici storiche e politiche dell’occupazione, o — peggio — presentando come “estremista” ogni discorso che metta in dubbio l’esistenza stessa di uno Stato coloniale costruito sull’espulsione e sulla negazione di un intero popolo.
Esemplare, a tal proposito, l’intervento recente di Corrado Augias, che pur denunciando la tragedia di Gaza e della Cisgiordania, ha immediatamente lanciato l’allarme contro chi, gridando “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, metterebbe in discussione il diritto all’esistenza di Israele.
Questo tipo di argomentazioni serve esattamente a ciò che l’Occidente cerca: riaffermare la centralità del punto di vista israeliano anche dentro una cornice di (finta) autocritica. Si può parlare di crimini solo se si accetta come intangibile la struttura di potere che li rende possibili.
Il centro-sinistra europeo e statunitense, così come i suoi corrispettivi mediatici, hanno un piano chiaro: costruire un nuovo consenso attorno a una pace addomesticata, che mantenga intatto l’ordine esistente.
Netanyahu diventa quindi il capro espiatorio perfetto. Eliminato lui, si potrà tornare a una “normalità” in cui l’occupazione continua, le colonie si espandono, i palestinesi restano sotto assedio — ma senza più l’imbarazzo delle bombe in diretta TV.
Contro l’ipocrisia, la voce dei popoli
Chi davvero è solidale con il popolo palestinese non può cadere nella trappola dell’emergenza umanitaria priva di lettura politica. Non serve piangere sui cadaveri se non si ha il coraggio di ascoltare le richieste di giustizia, autodeterminazione e ritorno dei rifugiati. Non basta invocare “due popoli, due stati” come formula salvifica se non si riconosce che il progetto sionista ha sempre previsto, nella pratica, la negazione dell’altro.
Oggi, la lotta per la Palestina non ha bisogno di nuovi ambasciatori occidentali dell’empatia, ma di alleati sinceri che mettano in discussione i pilastri della propria complicità. Che rompano con il sostegno militare e politico a Israele. Che riconoscano il diritto dei palestinesi alla resistenza, non solo alla sopravvivenza.
Finché questo non avverrà, ogni parola di condanna pronunciata contro Netanyahu non sarà che una foglia di fico. Un tentativo maldestro di salvare Israele dal giudizio della storia. E, ancora una volta, a pagarne il prezzo saranno i corpi e i diritti dei palestinesi.
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