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Con l’attacco ai siti iraniani, gli USA si espongono come coautori del conflitto israeliano. Un’azione simbolica che rivela la crisi identitaria americana e la totale sudditanza verso Tel Aviv. La forza imperiale diventa debolezza, la guerra un fallimento etico.
La saldatura tra Stati Uniti e Israele: il punto di non ritorno
Con il bombardamento dei tre siti nucleari iraniani, gli Stati Uniti hanno ufficialmente varcato una soglia che per anni avevano, almeno formalmente, esitato a oltrepassare. Non che Washington sia mai stata estranea alle guerre e alle operazioni israeliane nella regione: Gaza, Libano, Cisgiordania, Alture del Golan. La complicità è sempre esistita, ma spesso mitigata da un linguaggio diplomatico ambiguo, da finzioni di equilibrio e da una facciata di dissenso critico.
Con l’attacco diretto del 22 giugno, però, cade ogni paravento: gli Stati Uniti non sono più alleati strategici, ma coautori. Non solo sostenitori, ma protagonisti dell’escalation militare in Medio Oriente.
La distruzione dei siti iraniani, condotta in aperta violazione del diritto internazionale e senza alcuna prova concreta sull’imminenza della minaccia atomica, ha avuto un significato più propagandistico che strategico. L’Iran, al momento dell’attacco, non possedeva alcuna arma nucleare, e non esistono evidenze solide che stesse per dotarsene a breve termine.
L’intervento, dunque, non mira tanto a contenere un pericolo quanto a ribadire un’egemonia: un’esibizione di forza da parte dell’amministrazione Trump, destinata più ai media occidentali che agli equilibri militari globali.
Ma proprio in questa ostentazione si rivela la fragilità dell’Impero americano. Una fragilità che non nasce solo dall’incapacità di proporre soluzioni diplomatiche o di gestire conflitti secondo regole condivise, bensì da una profonda crisi identitaria. Gli Stati Uniti, oggi, non sanno più chi sono, cosa rappresentano e in nome di quali valori intervengono nel mondo.
L’Impero smarrito: quando la forza sostituisce la visione
Nel dopoguerra, gli Stati Uniti avevano costruito la propria legittimità globale su una combinazione di potere economico, soft power culturale e missione ideologica: il mito della libertà, il sogno americano, la difesa dei diritti civili. Anche nei momenti più oscuri della loro politica estera — dal Vietnam all’Iraq — la narrazione ufficiale restava ancorata all’idea di un ordine liberale da difendere. Oggi tutto questo è svanito.
Il solo fatto che uno slogan come Make America Great Again abbia avuto presa tanto forte rivela il crollo di un’identità collettiva. Perché se c’è bisogno di “rendere di nuovo grande” una nazione, è perché quella grandezza è percepita come persa. E lo è. La crescita americana, spesso sostenuta da bolle speculative e da un debito insostenibile, non ha colmato il vuoto simbolico. La ricchezza non basta quando manca una narrazione in grado di darle senso, direzione, legittimità.
Il paradosso è che mentre la potenza americana resta temibile in Europa — dove una telefonata da Washington può orientare decisioni politiche, silenziare opposizioni, e condizionare l’agenda dei media — negli scenari mediorientali essa si mostra sempre più subordinata a Israele. L’influenza di Tel Aviv non è più solo strategica o tattica, ma ideologica. Sono i governi israeliani a dettare tempi e forme della guerra, mentre gli Stati Uniti eseguono, amplificano, giustificano.
Crimini senza più veli e l’illusione della legittimità
L’attacco all’Iran — tanto scenografico quanto privo di efficacia reale — non è che l’ultimo episodio di una spirale in cui la potenza americana si afferma solo nella distruzione. Ma la distruzione, quando è disgiunta da un progetto politico, è un segnale di debolezza. E ciò che è più grave: rivela una complicità ormai totale con una delle guerre più brutali dell’epoca contemporanea, quella condotta da Israele a Gaza. Una campagna che, secondo diversi analisti, ha già raggiunto livelli di devastazione comparabili a sei bombe atomiche come quelle sganciate su Hiroshima.
Nel frattempo, si moltiplicano le voci che giustificano l’interventismo americano ricorrendo al linguaggio dei diritti umani, delle donne da liberare, dei popoli da salvare. Ma si tratta, nella migliore delle ipotesi, di un velo di ipocrisia. Il cosiddetto “woke”, oggetto di battaglie culturali interne, diventa all’esterno uno strumento di autoassoluzione: gli Stati Uniti si dichiarano paladini di libertà che nei fatti calpestano, attraverso colonialismo economico, guerre preventive e imposizione di modelli estranei.
Oggi, la saldatura tra Washington e Tel Aviv non ha più giustificazioni né morali né strategiche. È pura alleanza di ferro, fondata sul dominio, sull’ossessione della sicurezza, sull’identificazione dell’altro come nemico. Chi ancora nega questa realtà mente, per servilismo o per paura. Ma è da questa consapevolezza che può nascere la sola alternativa possibile: immaginare un mondo multipolare, in cui la pace non sia un’eccezione, ma un diritto fondato sul rispetto reciproco e sull’autonomia dei popoli.
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