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La corsa alle armi nell’Unione Europea si presenta come una risposta difensiva, ma nasconde contraddizioni ideologiche, strategiche e culturali che minano la stessa idea di un’Europa unita e autonoma.
L’Europa si arma per la pace (degli altri)
Il progetto di riarmo degli Stati europei, rilanciato con vigore dal Segretario della NATO Mark Rutte su pressioni di Donald Trump, viene ufficialmente giustificato con la necessità di difendersi dalla minaccia russa. Tuttavia, questa narrazione risulta ambigua e contraddittoria.
Da un lato, Mosca viene descritta come una superpotenza in grado di mettere in pericolo l’intero continente; dall’altro, la si dipinge come un paese tecnologicamente arretrato, che fatica a prevalere in un conflitto già logorante come quello ucraino. Due rappresentazioni inconciliabili, che sollevano dubbi sulla reale coerenza del discorso politico e militare occidentale.
A ben vedere, la Russia non rappresenta né un colosso invincibile né uno stato in disfacimento totale. È una potenza regionale con capacità militari selettive, ma anche con evidenti limiti: crisi demografica, problemi infrastrutturali e difficoltà a proiettare una vera egemonia al di fuori del proprio spazio storico.
Che interesse avrebbe Mosca ad annettersi territori ostili per cultura, lingua e orientamento politico? Non si tratta tanto di valutare se la Russia sia “buona” o “cattiva”, quanto di riconoscere che l’ipotesi di un’invasione continentale è strategicamente infondata.
La vera motivazione della corsa agli armamenti europea risiede altrove: nella riconfigurazione delle priorità geopolitiche degli Stati Uniti. Con l’attenzione americana sempre più rivolta al confronto con la Cina nel Pacifico, l’Europa è chiamata ad assumersi maggiori responsabilità nella propria sicurezza. Ma non per vera autonomia strategica, bensì come appendice operativa del disegno atlantico.
Il recente e imbarazzante scambio tra Donald Trump e Mark Rutte, in cui il primo pubblica un messaggio in cui il secondo promette un aumento della spesa militare europea, è emblematico del rapporto di subordinazione che ancora lega il continente a Washington.
Più armi, meno Europa
Uno degli argomenti più ingannevoli della retorica sul riarmo è l’idea che si stia gettando le basi per un futuro esercito europeo unificato. In realtà, i fondi per la difesa non vanno a un ente sovranazionale, ma ai singoli stati. Non esiste un comando integrato, né una catena di comando comune. Il risultato non è maggiore coesione, ma un rafforzamento degli eserciti nazionali, con tutte le conseguenze simboliche e culturali del caso.
Costruire un esercito non significa soltanto acquistare armi, ma creare una macchina retorica e ideologica che giustifichi la presenza di soldati, ufficiali e strutture militari. Significa alimentare narrazioni identitarie, erigere nuovi miti patriottici, riscoprire orgogli nazionali. In altri termini, significa alimentare il nazionalismo. E il nazionalismo, per sua natura, è centrifugo rispetto al progetto europeo: produce diffidenza tra stati, ostilità verso le istituzioni sovranazionali, insofferenza verso vincoli esterni come quelli imposti dai mercati o dal diritto comunitario.
Il paradosso è che mentre l’Europa si arma dichiarando di voler rafforzare la propria coesione, ne mina le fondamenta. E non è nemmeno detto che questo risveglio nazionalista sia in contrasto con la strategia americana. Gli Stati Uniti hanno sempre gestito le relazioni internazionali secondo la logica delle “sfere di influenza”, e l’Europa, divisa in entità nazionali forti ma coordinate da Washington, risulta più maneggiabile rispetto a un soggetto politico realmente autonomo.
A fare da apripista in questo gioco di doppiezze sono i governi più conservatori, come quello italiano, il cui retroterra ideologico unisce una certa nostalgia identitaria all’atlantismo più servile. Non è un caso che i discendenti politici del Movimento Sociale Italiano, oggi al governo, riescano a conciliare richiami nazionalisti e fedeltà assoluta all’amico americano.
Se questa è l’autonomia strategica europea, è più un’illusione fotografica che una prospettiva reale.
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