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L’Europa post-G7: un gigante senza dignità

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Dal G7 emerge un’Europa irrilevante e sottomessa, schierata con guerre altrui e guidata da élite ciniche e fallite. Finita la retorica della pace, resta una tecnocrazia che trascina i popoli verso il conflitto: una guerra di classe mascherata da politica estera.

Un’Europa schiacciata tra le ragioni di Washington e Tel Aviv

Il G7 appena conclusosi in Canada ha rappresentato un momento storico di vera e propria sottomissione politica per i paesi europei. Tornano prepotenti le critiche a un’Europa che sembra aver perso ogni capacità autonoma di decisione, schierandosi in modo acritico dalla parte delle guerre israelo-americane.

Le contraddizioni, sotto gli occhi di tutti, hanno toccato vette imbarazzanti: ciò che solo pochi anni fa veniva considerato sacro — l’autonomia geopolitica europea — è oggi completamente svuotato, lasciando spazio a un’adesione servile e integrale alle scelte di Washington e Gerusalemme.

L’Europa, dunque, ha scelto di accodarsi senza esitazioni alle posizioni più radicali espresse dagli Stati Uniti contro l’Iran, ignorando ogni forma di ragionevolezza diplomatica: il fronte europeo ha abbandonato ogni tentativo di mediazione, togliendosi la maschera di forza indipendente e manifestando impietosamente la propria fragilità politica. Al G7, anziché una voce credibile, si è vista una colonna sonora che ripete pedissequamente lo spartito imposto dagli Stati Uniti.

Questa capitolazione assume toni ancor più drammatici se valutata nel contesto del profondo discredito che, proprio oltreoceano, sta affliggendo la leadership americana. Le scelte “scellerate” del presidente statunitense, unite alle manovre politiche orchestrate da Benjamin Netanyahu, hanno minato la legittimità delle istituzioni a stelle e strisce.

Nonostante questo, i leader europei hanno continuato a marciare al ritmo imposto da Washington, come marionette inermi, senza voce né volto propri. La sottomissione politica è così totale da trasformare l’Europa in un’estensione geopolitica degli interessi israeliano-americani, snaturando la sua funzione storica di baluardo di equilibrio e mediazione fra potenze.

Trump fallisce ovunque…tranne che in Europa

Il quadro che emerge dalla Conferenza dei sette grandi è sconfortante: abbiamo di fronte un’Europa che abdica a ogni forma di sovranità, incapace persino di opporre una minima resistenza alle pressioni congiunte di Trump e Netanyahu, e apparentemente priva di idee proprie. Da un lato, la presidenza del tycoon, considerata “un disastro colossale”, naufraga fra dilettantismo, arroganza e razzismo — incapace di rilanciare alcuna parte del proprio programma politico. Dall’altro, Netanyahu – “il peggiore criminale del pianeta” – espressione di un governo sotto accusa alla CPI per genocidio, che nell’ultimo anno ha attaccato 7 paesi, ha pienamente neutralizzato il presidente degli Stati Uniti, trascinando la Casa Bianca in un conflitto che, forse, avrebbe preferito evitare.

Eppure, nonostante il fallimento americano su tutti i fronti, in Europa qualcuno si sorprende della rapidità con cui le cancellerie occidentali hanno ripiegato dietro le scelte americane. Ciò che in un altro quadro politico sarebbe sembrato uno schiaffo, qui è stato accolto come un’occasione per scaricare all’Europa ogni costo, sia materiale sia politico.

Scomparsi i tentativi di insediare un’autonoma strategia verso l’Ucraina, l’Unione è oggi impegnata a farsi carico dell’onere bellico voluto e iniziato dagli Stati Uniti. Così, mentre Trump fallisce in patria, in Europa si celebra la sua vittoria: siamo diventati un vaso di coccio, incapace di reggere il confronto con il padrone.

Il risultato è una tragedia geopolitica senza precedenti: un’Europa inesistente sul piano diplomatico, che concede agli altri la capacità di manovrarla come pedina di seconda classe. Durante il G7 canadese, non sono mancate le voci critiche, provenienti persino da importanti partner transatlantici — tanto che alcuni settori, perfino all’interno della stessa NATO, hanno espresso preoccupazione per la fragilità dimostrata.

Ma queste voci sono rimaste confinate ai margini, quasi mai ascoltate, mentre si continuava a ostentare una compattezza che in realtà celava una sottomissione totale.

In tale contesto, l’Europa non solo sembra aver rinunciato alle sue ambizioni geopolitiche, ma ha anche mostrato un deficit di identità strategica. Non si avverte alcuna visione costruttiva e autonoma, soltanto la replica stanca di una strategia elaborata altrove. E così Trump fallisce dappertutto, tranne che in Europa.

Il velo caduto, le parole di Merz

Dalla narrazione rassicurante di un’Europa che avrebbe garantito settant’anni di pace al cinico riconoscimento del Cancelliere Merz che candidamente, davanti alle telecamere dichiara:  “Israele fa il lavoro sporco per noi”, il salto di paradigma è netto. Crollano, una dopo l’altra, le impalcature retoriche che per anni hanno sorretto il racconto edulcorato dell’integrazione europea. Una retorica svuotata, fondata su ideali astratti e inconsistenti, che ha mascherato l’imposizione sistematica di politiche basate sulla violenza istituzionale, la demolizione del tessuto sociale, la negazione persistente degli errori di governance e la riduzione della democrazia a pura formalità procedurale.

Per anni, l’élite tecnocratica continentale ha fatto della sopraffazione una prassi amministrativa, mentre l’umiliazione delle classi lavoratrici veniva rivestita da un lessico aziendalista e paternalista. Il potere si è esibito con arroganza, spesso in forme fallocratiche, alimentando un clima di distanza e disprezzo verso i cittadini europei.

Un blocco dirigente cinico e spregiudicato, espressione di borghesie nazionali, con in testa quella tedesca, incapaci di produrre cultura, visione, o anche solo un’etica minima del governo.

Non si tratta più di errori, ma di scelte consapevoli. L’Europa dei salotti, degli istituti finanziari e delle università compiacenti, soprattutto quelle tedesche ormai profondamente influenzate dal pensiero neoliberale anglosassone, si è trasformata in un laboratorio di selezione per una nuova classe dirigente fatta a immagine e somiglianza di quella attuale: fredda, opportunista, tecnocratica, scollegata dalla realtà sociale. Il potere non solo non si rinnova, ma lavora attivamente alla propria riproduzione, con metodi che ricordano più una consorteria che una democrazia.

La collaborazione sempre più spregiudicata con regimi che conducono azioni belliche per procura in nome e per conto dell’Occidente – come accade con Israele – non è più celabile dietro parole come “difesa” o “diritto internazionale”. È il linguaggio del cinismo, del calcolo brutale, che si fa spazio: la geopolitica del tornaconto immediato e della sopraffazione permanente.

L’Europa della pace è finita. Quella che resta è una macchina cinica, che prepara la guerra – interna ed esterna – per garantirsi sopravvivenza e continuità.

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Marquez
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Corsivista, umorista instabile.

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