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L’Italia affonda in una senescenza senza progetto: giovani scoraggiati, anziani prigionieri di paure, classe dirigente assente. Tra declino demografico e culturale, serve un cambio di rotta radicale e lungimirante, o resteremo prigionieri del nostro stesso passato.
Italia, declino e senescenza
Un tempo, in condizioni ancora più complesse delle attuali, l’Italia seppe darsi un progetto comune. Forze politiche profondamente distanti – comunisti, liberali, democristiani, perfino monarchici – trovarono un terreno d’intesa attorno a obiettivi essenziali: la Liberazione, il referendum istituzionale, la Costituzione. Non si trattava di utopie, ma di pochi punti concreti e condivisibili, capaci di accendere una mobilitazione popolare e costruire un futuro.
Oggi quello slancio appare lontano, quasi irraggiungibile. L’Italia sembra un paese invecchiato non solo nei dati demografici, ma nello spirito: incapace di visione, privo di fiducia, ripiegato su se stesso.
La politica si è ridotta a gestione del presente, incapace di pianificare o immaginare. La società, sempre più frammentata e sfiduciata, si rifugia nell’inerzia o nell’individualismo.
In un contesto in cui l’età media supera i 48 anni, ogni proposta di cambiamento si scontra con un corpo sociale irrigidito, incapace di elaborare una direzione comune. Il declino non riguarda solo infrastrutture o servizi: è culturale, simbolico, profondo. A venir meno è il desiderio stesso di futuro.
Demografia, lavoro, rappresentanza: perché l’Italia non è un Paese per giovani
Molto si è detto sulla crisi demografica italiana, ma spesso in modo superficiale. Il problema non è solo il numero di nascite, ma la struttura stessa della popolazione: una piramide rovesciata che produce un vortice inarrestabile di invecchiamento e quindi di ulteriore sterilità, biologica e culturale. Dal 1977, l’Italia è costantemente sotto la soglia dei due figli per donna. Questo dato non è neutro: implica un ridimensionamento radicale della proiezione nel futuro.
L’emancipazione femminile, l’incertezza economica, la precarietà abitativa e lavorativa, un welfare obsoleto: tutto concorre a congelare la fascia sociologicamente centrale della popolazione, quella che altrove costruisce famiglie, investe, si radica. In Italia, i ceti medi, anziché essere motore di trasformazione, vivono in difesa, arroccati nella paura di perdere quel poco che resta.
A peggiorare il quadro, si aggiunge una cultura pubblica che infantilizza i giovani, li deresponsabilizza e nel contempo li esclude. In nessun altro paese europeo un quarantenne è definito “giovanissimo”. Solo in una società dominata da sessantenni può ancora avere senso questa distorsione lessicale. Ma le parole contano, e dietro l’uso improprio dei termini si cela una realtà più profonda: l’Italia non solo non investe nei giovani, ma non li riconosce nemmeno.
Le migrazioni, che avrebbero potuto essere un fattore di riequilibrio, sono state gestite in modo miope o ideologico. Negli anni ’90, si sarebbe potuto avviare un piano per attrarre giovani famiglie dal Sud America, culturalmente affini e spesso di origine italiana. Non lo si è fatto. Oggi, è troppo tardi: quale trentenne con ambizioni sceglierebbe di trasferirsi in una provincia italiana depressa, dove anche i connazionali fuggono?
Il disarmo della classe dirigente: quando il futuro si scrive con le spalle al passato
La decapitazione della classe dirigente italiana alla fine della Guerra Fredda ha avuto effetti devastanti. Mani Pulite, pur necessaria, ha prodotto un vuoto che non è mai stato colmato. L’illusione che la sola onestà bastasse a rifondare un sistema ha aperto la strada a una lunga stagione di mediocrità, improvvisazione e consociativismo.
L’IRI, esempio di intervento pubblico intelligente, è stato smantellato. Figure come Mattei, Olivetti o Craxi (al netto dei giudizi morali) seppero leggere la propria epoca, usarne le contraddizioni per produrre valore e visione. Oggi, la classe dirigente italiana – politica, imprenditoriale, accademica – appare inadeguata e senza respiro strategico. Non pianifica, non investe, non rischia. L’università è ridotta a un sistema svuotato, i ricercatori costretti a emigrare o adattarsi a logiche inefficienti.
Persino l’informazione ha smesso di svolgere il proprio ruolo. Non si tratta più nemmeno di propaganda o manipolazione: semplicemente, il giornalismo italiano è diventato un contenitore vuoto, incapace di stimolare senso civico o partecipazione.
L’Italia di oggi riesce nella paradossale impresa di combinare i peggiori difetti del pubblico e del privato, senza i pregi di nessuno dei due. Non ha diritti sociali avanzati né un sistema efficiente. Non tutela la scuola, né la sanità, né l’ambiente. Eppure, sopravvive, grazie forse a una diffusa resilienza quotidiana che però rischia di trasformarsi in abitudine alla rassegnazione.
Ripartire dal reale: una politica del lungo periodo
Non serve un nuovo fuoco di paglia, un’altra meteora elettorale destinata a dissolversi in pochi mesi. Serve una visione lunga, una politica capace di pensare a trent’anni, di costruire lentamente ma con costanza, su basi pragmatiche. Serve la consapevolezza che ogni comunità può risollevarsi, ma solo se accetta di guardarsi con lucidità, senza retorica, senza alibi, senza illusioni salvifiche.
La decadenza non è mai definitiva. Ma solo se si riconosce l’entità del disastro, si può cominciare a immaginare una ricostruzione. L’Italia può ancora dire qualcosa al mondo, ma per farlo deve prima capire cosa vuole dire a sé stessa.
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