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Israele-Iran: escalation che cancella ogni legittimità morale

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L’attacco israeliano su obiettivi civili e militari in Iran, e la dura reazione di Teheran, segnano un’escalation pericolosa. Israele, ormai scollegato dalla propria eredità etica, distrugge ogni legittimazione storica fondata sulla memoria dell’Olocausto.

Israele-Iran, il tramonto della legittimità morale

I dubbi sulla natura profondamente criminale del governo israeliano si sono dissolti da tempo. L’ennesima e gravissima conferma è giunta con l’attacco lanciato direttamente da Israele contro l’Iran nella notte tra il 13 e il 14 giugno, colpendo strutture militari, laboratori scientifici e abitazioni private appartenenti a esponenti del corpo dei Pasdaran e a ricercatori coinvolti nei programmi di difesa e sviluppo tecnologico della Repubblica Islamica. La reazione di Teheran non si è fatta attendere con il lancio di centinaia di missili balistici che hanno seminato distruzione a Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme.

La concezione israeliana dei rapporti internazionali si fonda su una logica di forza che rifiuta ogni visione cooperativa, ogni apertura all’altro. È una politica fondata sulla paura, sulla disumanizzazione del nemico, sulla supremazia di un diritto di sicurezza che si trasforma in diritto di aggressione. Tale approccio, marcatamente etnocentrico, tradisce l’universalismo etico che per secoli ha costituito una delle anime più alte della cultura ebraica.

L’effetto retroattivo di questa strategia sarà devastante. Israele, nato come risposta alla tragedia dell’Olocausto, rischia di perdere ogni legittimità morale. Il ricordo della Shoah, fondamento etico della sua esistenza, viene oggi usato come scudo per giustificare crimini contro altri popoli. Così, la “politica della memoria”, pilastro su cui si reggeva il consenso internazionale, viene erosa dall’interno. Il paradosso è crudele: ciò che doveva essere un risarcimento storico per le vittime del nazifascismo si è trasformato, per volontà del suo stesso governo, in una forza oppressiva e coloniale.

Assistiamo a una rottura profonda con l’eredità spirituale dell’ebraismo europeo. Figure come Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Levinas, Edmond Jabès e Jacques Derrida avevano costruito un pensiero dell’ospitalità, della relazione, del volto dell’altro come chiamata etica. Oggi, quelle radici sembrano sradicate da un potere che pratica l’esclusione, il bombardamento dei civili, la demolizione delle case, il rifiuto del dialogo. La politica israeliana è diventata la negazione vivente del pensiero ebraico della differenza e della giustizia.

In questo contesto, riemerge il monito di Walter Benjamin, che nel 1932 rifiutò l’invito di Gershom Scholem a trasferirsi in Palestina. Il suo scetticismo verso la costruzione statuale sionista era profondo, radicato nella consapevolezza che ogni struttura di potere tende a corrompere i fini per cui nasce. Benjamin vedeva nella strumentalizzazione politica della religione ebraica un rischio immenso: la possibilità che il popolo dell’esilio si trasformasse in nazione guerriera. Oggi, quelle paure sembrano tragicamente avverate.

La crisi globale – finanziaria, democratica, ecologica – si riflette nello specchio distorto del Medio Oriente. L’azione del governo israeliano non è solo una tragedia per i palestinesi e per gli iraniani: è una ferita aperta nella coscienza dell’umanità e una negazione della stessa possibilità di un futuro fondato sul diritto e sulla convivenza.

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Marquez
Marquez
Corsivista, umorista instabile.

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