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Nel cuore del Medio Oriente, mentre le bombe continuano a cadere su Gaza causando centinaia di vittime civili, un’altra crisi, più insidiosa e meno immediatamente visibile, si consuma tra le mura di Gerusalemme: è la deriva estremista dello Stato israeliano, guidata da un governo sempre più arroccato su posizioni ultra-nazionaliste e teocratiche, che sta minando non solo la possibilità di pace con i palestinesi, ma anche i rapporti internazionali con l’Europa e il mondo.
Il “Terzo Tempio”: Israele e i tanti giovani Netanyahu
Il cosiddetto “Giorno di Gerusalemme”, ricorrenza istituita per commemorare l’occupazione israeliana dell’intera città nel 1967, si è trasformato anche quest’anno in una vetrina del suprematismo religioso ebraico.
Migliaia di manifestanti israeliani, molti dei quali giovani militanti educati all’ideologia della destra religiosa, hanno invaso le strade della Gerusalemme Est palestinese, sventolando bandiere, aggredendo passanti arabi e scandendo slogan come “Morte agli arabi” e “Che il tuo villaggio possa bruciare”.
Scene che documentano non solo un’escalation verbale e simbolica, ma anche una violenza sistemica e pianificata, con l’apparato statale che, di fatto, ne è complice.
Nel frattempo, l’avamposto della guerra simbolica contro l’Islam si è concentrato sull’Esplanade delle Moschee. Più di 1.400 estremisti, guidati dal ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir e altri esponenti del governo come Zvi Succot e Yitzhak Wasserlauf, hanno invaso i cortili della moschea di Al-Aqsa, issando vessilli con la scritta “Terzo Tempio” e invocando apertamente la distruzione del complesso islamico per far posto a un nuovo santuario ebraico. È un gesto che infrange deliberatamente lo status quo e che, per chi conosce la storia del conflitto israelo-palestinese, equivale a gettare benzina sul fuoco.
Gaza: il genocidio silenzioso
Mentre a Gerusalemme si celebrava l’orgoglio nazionalista, a Gaza si consumava l’ennesima tragedia. L’attacco notturno a una scuola rifugio a Gaza City, che ha causato la morte di almeno 36 persone – di cui 18 bambini – è solo l’ultimo esempio di una strategia militare che colpisce deliberatamente infrastrutture civili, giustificandosi con la retorica trita della “lotta a Hamas” e dell’uso di “scudi umani”. Affermazioni sempre identiche che si scontrano con la realtà di un attacco contro famiglie inermi.
L’esercito israeliano continua a operare nella Striscia con una brutalità crescente. Secondo proprie stime, entro due mesi circa il 75% del territorio di Gaza sarà occupato, mentre due milioni di palestinesi saranno compressi in tre minuscole aree. È il piano chiamato “Carri di Gedeone”, che associa la logica della guerra alla narrazione biblica dell’elezione divina e della punizione collettiva. Una forma di occupazione e deportazione di massa che, per molti analisti e osservatori internazionali, rappresenta un tentativo di pulizia etnica.
Cisgiordania: i coloni come falange armata
Parallelamente all’offensiva militare su Gaza, in Cisgiordania si assiste a una sistematica campagna di terrore da parte dei coloni israeliani, spesso armati e protetti dall’esercito. Ogni notte villaggi palestinesi vengono assaliti, case incendiate, alberi sradicati, famiglie costrette alla fuga.
A Mughayer e Khallet a Daba, negli ultimi giorni, centinaia di civili hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni sotto la minaccia di bastoni, pistole e bastonate. La strategia è chiara: costruire nuovi avamposti a ridosso dei villaggi più isolati per svuotarli progressivamente.
Anche nel sud del paese, nel villaggio beduino non riconosciuto di Qasr El Sir, lo Stato ha cominciato la demolizione sistematica di 70 abitazioni. Due residenti sono stati arrestati per essersi opposti alla distruzione, mentre gli autori degli assalti in Cisgiordania rimangono impuniti. Il doppio standard giuridico non è solo prassi, ma dichiarazione politica.
L’Europa sotto accusa
In questo contesto, le tensioni con l’Europa si fanno sempre più aspre. Tel Aviv ha minacciato apertamente l’annessione della Cisgiordania in risposta a qualsiasi riconoscimento dello Stato palestinese da parte di paesi come Francia e Regno Unito. “Azioni unilaterali contro Israele saranno accolte con azioni unilaterali da parte di Israele”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Gideon Saar. Il ministro Ron Dermer ha rincarato la dose: se l’Europa riconoscerà la Palestina, Israele risponderà con fatti concreti, e irreversibili.
Nel frattempo, la diplomazia europea si barcamena tra dichiarazioni ambigue e complicità materiale. Secondo una denuncia pubblicata da un gruppo di funzionari Ue su The Guardian, l’Unione europea avrebbe “intrapreso poche o nessuna azione significativa per fermare gli eccidi israeliani”, contribuendo indirettamente al clima di impunità. “La metà delle bombe che cadono su Gaza sono europee”, ha affermato Josep Borrell, già responsabile della diplomazia Ue.
Le parole più nette sono venute dal cancelliere tedesco Friedrich Merz: “Non si può più giustificare ciò che Israele sta facendo a Gaza come lotta contro il terrorismo”.
Un bivio storico
Israele si trova oggi a un bivio drammatico. Da un lato una società sempre più dominata da spinte messianiche, coloniali e violente; dall’altro la perdita progressiva di legittimità agli occhi di un’opinione pubblica internazionale che comincia a riconoscere l’evidenza di un regime di apartheid e repressione sistematica.
La crisi a Gaza, con il suo altissimo tributo di sangue civile, è il sintomo di una malattia più profonda: l’uso della religione e dell’identità nazionale come giustificazione per l’annientamento dell’altro.
La domanda non è più se l’Europa o gli Stati Uniti reagiranno. Ma quanto tempo rimarrà prima che il conflitto degeneri in una spirale irreversibile di distruzione e radicalizzazione. Il “Terzo Tempio” evocato dai fanatici a Gerusalemme non è solo una costruzione religiosa: è l’emblema di una politica che si pone al di sopra del diritto internazionale, della convivenza e della pace.
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