L’uomo che lava i piatti ammazza l’eros secondo Laura Chiatti, e vabbè. Ciò che inquieta nell’epoca dei social è la centralità nel dibattito pubblico di frasi del genere.
L’uomo che lava i piatti o sui decisivi problemi del nostro tempo
Ciò che trovo inquietante nell’affermazione di Laura Chiatti – “l’uomo che fa il letto o lava i piatti mi ammazza l’eros“ – non è il concetto in sé, ma che se ne stia parlando da giorni.
Io non solo non ero a conoscenza della frase, prima di aprire Facebook e ritrovarla mille volte ripetuta, chiosata, ironizzata o fatta propria, ma nemmeno sapevo chi fosse Laura Chiatti; a dire il vero non l’ho capito bene neppure adesso, per quanto immagino sia una persona che appartiene al mondo dello spettacolo.
Ora va benissimo, le persone dello spettacolo hanno come tutte opinioni e gusti personali, tra cui la preferenza per le lavastoviglie e un erotismo vecchia maniera, potrebbe tranquillamente stare in un romanzo di Liala – il bell’aviatore che ti cinge alla vita e poi con un balzo siete nel lettone sfatto, e in culo ai piatti da lavare!
Ciò che mi inquieta è la centralità nel dibattito pubblico di frasi del genere: del tutto legittime, ma, per così dire, di dubbia autorevolezza nella provenienza, e consistenza ancor più incerta.
È come se negli anni Sessanta ci si fosse lambiccati sulla Weltanschauung di Lauretta Masiero o di Cino Tortorella, in arte il Mago Zurlì. Persone rispettabilissime, ma in un’ideale gerarchia dell’attenzione mediatica venivano dopo Jean Paul Sartre, Martin Luther King, Angela Davis, Pasolini, Oriana Fallaci e Hannah Arendt; o se vogliamo restare allo spettacolo, Carmelo Bene e Gassman.
Sposterei dunque l’interrogazione non sulla questione posta da Laura Chiatti – che ha tutto il diritto di erotizzarsi come le pare – ma sull’ampio credito di attenzione che le viene assegnato. Domani, anzi già oggi, sarà una frase di Ambra Angiolini al concertone del Primo Maggio, con l’immediata replica di Selvaggia Lucarelli e la cascata di commenti sui social.
Nessun rimpianto per i tempi in cui l’agenda discorsiva veniva stabilita dal marxismo o dal post strutturalismo, in una libertà solo apparente troppo spesso ammanettata dall’ideologia. Ma qualcosa di simile deve essere accaduto anche adesso, solo con ambizioni più basse, pareti più strette. Quanto basta a contenere parole che si rincorrono e ripetono; in fondo, non fanno altro che riferirsi alle news presentate nella tendina dello smartphone.
Tutto ciò mi ricorda il gioco del Monopoli: eravamo in marcia trionfale verso Parco della Vittoria, ma abbiamo avuto un inciampo. Così siamo finiti dritto in prigione senza passare dal via. Una prigione pop, scanzonata, dove ci sembra di poter dire quello che ci pare. E invece è solo un sentiero piccolo piccolo e mediano, quando tutto intorno si era spalancata una prateria.
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