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Era il 18 luglio del 2006 ed era in corso l’ennesima crisi mediorientale, con la guerra in Libano tra Israele e le milizie di Hetzbollah. Nell’aula di Palazzo Madama il senatore a vita Giulio Andreotti intervenne nel dibattito con parole che fecero calare il gelo: “Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”.
Per l’asfittica diplomazia italiana di questi anni (oggi ancor più misera e impotente di allora), tale affermazione suona come un eresia ma in realtà Andreotti aveva rimarcato la politica realista assunta per quasi mezzo secolo dal nostro paese
La linea italiana di politica estera, spiegò il sette volte presidente del Consiglio , “prescinde dal carattere strutturale del governo, perché è nata nel ‘70 a Venezia, quando per la prima volta si parlò della necessità di dialogo tra israeliani e palestinesi”. Ricordando poi che nel ‘48 l’Onu stabilì la creazione dello stato di Israele e dello stato palestinese, ma “lo stato di Israele esiste, lo stato arabo no”.
E poi il gran finale con acrobazia semantica: “Nel nostro vocabolario abbiamo la parola equidistanza ma non esiste la parola equivicinanza“. E dunque quello che servirebbe realmente sarebbe “riattivare, attraverso il nostro stimolo, un intervento dell’Unione europea perché questa è una situazione che moralmente dovrebbe impegnarci di più”.
Parole e posizioni che oggi non esistono più neanche nella sinistra cosiddetta “liberal” o istituzionale (ognuno scelga la definizione che preferisce).
“Ognuno di noi sarebbe un terrorista”, Alessandra Sardoni ci riporta alle parole di Giulio Andreotti sui palestinesi
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