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L’unica forma di consenso etico rimasta nel mondo moderno sembra essere il presentarsi pubblicamente come vittima.
In assenza di valori positivi condivisi, l’ultimo residuo di ragione etica si fonda sull’appello liberale a rispettare lo spazio personale; e quando tale spazio viene violato, ci si può automaticamente attribuire il ruolo di “vittima.”
Le vittime nel mondo liberal
L’ambito ruolo di vittima nella società contemporanea, soprattutto nel mondo liberal, è diventato una posizione strategica, fornendo a chi lo assume diritti e attenzioni speciali.
Oggi, il “ruolo di vittima” non si limita a una condizione di sofferenza individuale, ma assume un significato molto più ampio, intrecciandosi con dinamiche culturali e politiche complesse. Questo ruolo, infatti, concede una sorta di “credito morale” con la collettività, che in qualche modo è chiamata a “risarcire” la vittima.
Negli ultimi tempi, esempi di questa tendenza sono stati evidenti in vari casi di cronaca. Ad esempio sono stati definiti vittime gli ultras nazionalisti del Maccabi, similmente, l’ex direttore di Repubblica Maurizio Molinari è stato considerato vittima per essere stato contestato in un’università. Anche la ministra Eugenia Roccella, che troverebbe approvazione anche in Arabia Saudita per le sue posizioni, è stata vittimizzata perchè fischiata durante gli Stati generali della maternità.
In queste situazioni, si è applicato il concetto di “vittima” con una particolare elasticità, quasi a volerne ampliare il significato per scopi che vanno oltre la sfera individuale. Tuttavia, il processo che trasforma un individuo o un gruppo in “vittima” non è un semplice riflesso di ingiustizia subita.
Nella storia, ogni gruppo o individuo ha subito prevaricazioni; si può dire che l’ingiustizia è quasi universale. Dai lavoratori sfruttati ai popoli colonizzati, dai sopravvissuti dei genocidi ai prigionieri politici, la lista di chi ha sofferto prevaricazioni è infinita: ogni gruppo etnico, religioso, politico o sociale ha una storia di ingiustizie e abusi.
Tuttavia, non tutti possono aspirare alla posizione di vittima in senso culturale e politico, perché serve la “coltivazione” di questo ruolo. Questa “coltivazione” include capacità organizzativa, narrazione efficace e continuità nella rappresentazione di sé come vittime.
E qui si apre un vasto campo di possibilità interpretative. Chi sono i veri gruppi vittimizzati della storia?
- Gli indigeni americani, a cui i coloni anglosassoni sottrassero terre, risorse e vite?
- I cinesi, costretti a diventare un protettorato sotto la minaccia delle cannoniere inglesi nell’Ottocento?
- Gli armeni, vittime dei massacri perpetrati dai turchi dopo il 1915?
- I sovietici, attaccati dalla Germania e usciti dalla guerra con 20 milioni di vittime?
- Forse i lavoratori, sfruttati senza sosta dal sistema capitalista?
- Oppure i maori, gli indios, i congolesi, i maghrebini e le innumerevoli etnie soggette a colonizzazioni più o meno brutali da parte degli europei?
- I comunisti, perseguitati e messi al bando dall’anticomunismo del Novecento?
- I palestinesi, privati sistematicamente della loro terra e della loro dignità per generazioni?
- Gli iracheni, il cui paese è stato ridotto a macerie dall’azione della “Coalizione dei volenterosi”?
L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Non sono citati gli ebrei vittime dell’Olocausto poichè è un fatto riconosciuto ad ogni latitudine. Negli altri casi citati invece iniziano i ‘distinguo’ a seconda delle dinamiche e delle convenienze.
Una dinamica fondamentale nel vittimismo, così come inteso oggi, è quella dell’identificazione di un gruppo. La vittimizzazione, per essere sfruttata politicamente, deve essere estesa a un insieme di persone, trasformando ingiustizie subite individualmente in un fenomeno collettivo.
Questo porta alla costruzione di una narrativa in cui il gruppo intero viene riconosciuto e trattato come vittima, in modo da ottenere risorse, diritti o considerazioni speciali. In questo modo, la vittimizzazione si distacca dall’individuo e diventa uno strumento politico, attraverso cui un gruppo può ottenere influenza e considerazione.
Esistono molti esempi di gruppi che hanno saputo organizzarsi e, grazie a una rete di pressioni, consolidare e mantenere lo status di vittima nella percezione pubblica. Pensiamo alla narrativa sull’antisemitismo e alla capacità organizzativa delle comunità ebraiche, in cui l’attenzione sul tema si affianca a una dura critica alle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi.
Da un lato, infatti, viene sostenuto che la memoria delle sofferenze subite imponga una responsabilità morale al mondo nei confronti del popolo ebraico; dall’altro, si solleva la questione di come questa stessa memoria venga utilizzata per giustificare azioni di cui Israele è accusato.
Questo intreccio di sofferenza storica e posizionamento contemporaneo fa emergere un punto controverso: quando il vittimismo diviene quasi una “professione”, in cui la sofferenza, o la memoria della sofferenza, viene trasformata in un capitale morale e politico. Diventa così non solo un ricordo, ma uno strumento d’azione, in cui l’etichetta di vittima giustifica azioni e scelte che, senza tale status, risulterebbero difficilmente accettabili.
Il ruolo di vittima, dunque, non è più una condizione legata esclusivamente all’ingiustizia subita, ma un ruolo ambito e coltivato. Questo fenomeno crea una distinzione fondamentale tra chi rivendica l’identità di vittima come memoria di sofferenza e chi invece la strumentalizza, trasformandola in un’arma retorica e politica.
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