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L’America in rotta: tra illusioni trumpiane e fantasmi del passato

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Mentre l’America piange le sue icone culturali, scivola in una crisi profonda. Il fallimento di Biden e Trump mostra un Paese lacerato: tra woke e xenofobia, tra muri interni e illusioni di grandezza. Una nazione giovane che rischia l’autodistruzione.

L’America in rotta

Nelle ore in cui una certa America piange Sly Stone e Brian Wilson, testimoni di un’epoca culturalmente feconda di quel Paese, gli Stati Uniti sembrano non sapere più dove andare a sbattere, e mostrano — con quanto accade nelle sue strade — una crisi davvero enorme (forse di crescita, essendo un Paese giovane, ma profonda e culturale, se non spirituale).

Dopo il fallimento di Biden e dei Democratici, rappresentanti di un progressismo senz’anima e lontano dalle masse, specie quelle non urbane, arriva il fallimento di Trump. Avevo sperato che, per effetto della sua vanità e per quella che si dice essere una sua ossessione — l’aspirazione al Nobel per la pace —, ma anche per il suo incarnare un ripensamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, il tycoon potesse favorire processi di pace per l’Ucraina e per la Palestina.

Ad oggi, pur in presenza di qualche (maldestro) tentativo, tutto ciò non si è ancora visto. Ma si può concedere che, forse, serva più tempo di fronte a situazioni così incancrenite.

Quanto alla politica interna, invece, confesso che non mi aspettavo né più né meno di ciò che sta accadendo. Se i Democratici spaccavano il Paese con la retorica woke, Trump non lo riunisce di certo; anzi, lo trascina in un clima di muro contro muro che, pur essendo a mio avviso anche una reazione al wokismo, non oppone semplicemente l’America della provincia a quella — come si suol dire — “radical chic” dei grandi centri urbani e dei ricchi progressisti.

Si tratta di un conflitto senza quartiere tra due disagi: da un lato, la provincia impoverita; dall’altro, i nuovi poveri delle metropoli (immigrati e non solo). Uno scontro rischioso, che non porterà a nulla di buono e che, a dispetto della presenza di un Kennedy nell’amministrazione, rappresenta l’esatto opposto di quanto predicava Bob Kennedy.

L’uomo di destra italiano — una destra, in fondo, law and order — gradirà, e magari verrà a parlarci di un mero ripristino della legalità e di un’ostilità che si limiterebbe ai migranti illegali (va da sé, ritenuti manovrati dai Democratici), senza mai riconoscere apertamente che, in un Paese dove forse non esiste più una questione razziale nei termini in cui esisteva fino a qualche anno fa, il razzismo continua a covare sotto la cenere.

È un razzismo storicamente alimentato dalla povertà crescente nelle fasce più disagiate della popolazione bianca — lo stesso che, per certi versi, spiega anche il voto referendario in Italia sulla cittadinanza, da parte di lavoratori sindacalizzati come quelli andati a votare. Forse non un razzismo in senso stretto, ma certamente una forma di xenofobia.

Per dire: si scherza col fuoco.

Se vuoi un Paese in grado di giocare ancora un ruolo nel mondo — sia ben inteso, in mezzo ad altre potenze, e credo che questa accettazione della multipolarità sia più nelle corde di Trump che di altri suoi predecessori —, il tuo compito non è lacerare la nazione e condurla verso una guerra civile, instaurando un indecente stato di polizia.

E, senza scomodare l’America della controcultura, dei poeti beat e degli anni Sessanta di Bob Kennedy e MLK (e di Sly Stone e Brian Wilson), ai trumpisti nostrani consiglierei la visione di una pellicola del repubblicano Clint Eastwood. È Gran Torino.
Lì c’è tutto ciò che serve per vaccinarsi contro una visione così truce e suicida come quella del Trump di questi giorni.

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parole ribelli, menti libere

Mario Colella
Mario Colella
Garibaldino

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