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Nel mondo dei mercati, il culto muscolare diventa ideologia. Tra palestre, arti marziali e mitologia del “duro”, il corpo si plasma come arma. Non più salute o sport, ma performance e dominio: l’estetica del combattente diventa modello sociale per adolescenti e manager.
Ideologia del corpo e pulsioni di guerra
La società dei mercati impone due stili di vita intimamente connessi. Accanto all’esistenza modellata sulla managerialità delle scelte personali, scorre quella incentrata sull’efficienza fisica, sull’imbottitura artificiale dei corpi.
Una sorta di fissazione collettiva che non ragiona in termini di salute pubblica e individuale; vorrebbe sopperire alla scomparsa della muscolatura da fatica, un tempo riconoscibile grazie a quelle tipiche abbronzature contadine e proletarie che non riuscivano a incutere alcun timore gratuito.
I fisici da spaccaossa, costruiti col sollevamento pesi, erano una rarità nonché sinonimi di scarsa elasticità mentale: Primo Carnera, Johnny Weissmuller, Lou Ferrigno, Terminator e Rambo.
Oggi, al contrario, il mito dell’obesità muscolare si è socializzato in termini prestazionali e ha assunto connotati squisitamente ideologici. Appare, nelle pose, negli sguardi, nella gesticolazione dei nuovi “duri” metropolitani, una cultura della spedizione punitiva, un’estetica da guardaspalle vestito di tirapugni.
Gli ultrà delle origini, per esempio, erano ragazzi striminziti, ammucchiati in una curva dove utilizzavano spontaneamente il vocabolario della violenza, del chiasso, del fanatismo e dell’emarginazione sociale; gli ultras contemporanei si sono dotati di una mentalità, di vademecum aziendali; evocano così squadracce paramilitari, codificano la rissa come normale mezzo di discussione e di dissuasione per congelare la passione in freddo calcolo criminale.
La riproduzione indefinita di palestre, di nuovi sport da combattimento, ha ampliato la sfera d’influenza di maestri che diffondono con autorevolezza il codice comportamentale acquisito all’università della strada e lo esaltano in piattaforma etica dei rapporti interpersonali. MMA, Krav Maga, Kickboxing, Muay Thai, con le loro gabbie adibite a ring, non educano al rispetto della giocata, della tattica, al balletto sofisticato che un allenatore concepisce per adeguarsi al regolamento e vincerlo.
Sono recalcitranti alle regole perché sia accesa la volontà distruttiva e autodistruttiva di fisici programmati per annientare l’altro; d’altronde il contare solo sulle proprie forze è il primo imperativo categorico dell’evoluzionismo manageriale.
Dalla scena sono scomparsi gli sportivi filiformi, i calciatori ossuti, i cestiti allampanati e i pallavolisti col fisico da insegnante di educazione fisica del liceo. La smania del RoboCop, tappezzato da tatuaggi, si è dilatata tra stadi e palazzetti. Si insegue il modello del sergente di ferro che umilia pedagogicamente “Palla di Lardo”.
Ma non esistono più neanche i corpi segnati dai racconti, dalle peripezie, dalle privazioni, dai mezzi toscani che eruttano tra barbe ingiallite. Il consumo di massa ha uniformato i volti e gli scheletri; l’impresa di sé ha rilegittimato muscoli e mascelle volitive, dopo che il fascismo li aveva gettati nella sfera del grottesco.
Il giro d’affari dello sport vuole una performance bulimica, strabordante, che martirizza i corpi in imprese al limite dell’umano, copie in carta carbone delle gesta consumate dagli eroi digitali. La forma fisica non è più naturale, non ha più nulla di sano. Si rincorre l’algoritmo che vuole generare l’essere indistruttibile, oggi rappresentato plasticamente nello spazio virtuale.
Il combattente dei videogiochi, veloce, efficiente, agile, possente, lo si rivede negli sguardi torvi, inespressivi, disperati dei “maranza” quando sono in compagnia delle loro baby gang.
I corpi progettati nelle palestre da combattimento sono ormai formati da componentistica industriale. L’innaturalità è dimostrata dalla teatralità degli atteggiamenti. Muoversi, schierarsi, appoggiarsi come un navigato picchiatore rappresenta il nuovo sussidiario che gli adolescenti ipnotizzati dalle cadenze trap – musica che romanza le vite di bulli e pupe – maneggiano con ingenua e pericolosa disinvoltura.
L’immortalità promessa dai guru della Silicon Valley ha come corollario il mito dell’eterna giovinezza. Management, culto d’impresa, efficienza fisica, depurazione mistica, tutte pratiche che vorrebbero allenare il singolo nel fronteggiare prontamente il pericolo, nel sopprimere il nemico, nel ragionare in termini di istinto di sopravvivenza.
Insomma, quel sopravvivere alla giornata che contraddistingue soprattutto il tempo di guerra. Al quale, da tempo, siamo orientati senza che nessuno ci abbia fatto caso.
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