La noia effetto collaterale dell’educazione, dove il crescere aveva a che fare con la formazione di una personalità capace di scardinare la legge, di organizzare un conflitto dialettico. Gli spazi di autonomia andavano conquistati per essere accolti.
Elogio della noia
Lunghi pomeriggi che iniziavano dal dopo pranzo. Masticare a fatica l’ultimo boccone di carne stoppacciosa delimitava l’alba di un tempo sospeso, quello in cui il silenzio della casa regolava le attività. Da principio i compiti a casa e poi qualcosa che non disturbasse troppo quella quiete ordinata e composta che valeva come precetto indiscutibile.
I pochi giochi a disposizione erano capaci di suggerire soluzioni imprevedibili, mutavano forma a seconda della fantasia. La noia inizialmente spaventava, tanto da ipnotizzare lo sguardo nel seguire i percorsi tortuosi delle gocce di pioggia alla finestra. Fino a quando una scintilla appagava la solitudine.
Si era consapevoli del fatto che qualsiasi richiesta estemporanea, fuori dal consueto corso della giornata sarebbe stata accolta con una negazione ferma, solida e non argomentata.
Così erano i tempi e così erano per tutti. Educare significava compiere gesti scomodi, incuranti dei pianti disperati, denominati capricci e quindi sostanzialmente ignorati. Al cospetto dell’autorità occorreva adultizzarsi, spiegare, provare ad articolare qualcosa che non fosse del tutto irrazionale. Questo solo per essere ascoltati.
Occasionalmente poi arrivava qualche premio: i pacchetti di figurine raddoppiati, una nuova squadra di Subbuteo. Ma si navigava nella rete della rarità. Crescere dunque aveva a che fare con la formazione di una personalità capace di scardinare la legge, di organizzare un conflitto dialettico. Gli spazi di autonomia andavano conquistati per essere accolti, a piccole tappe e con ritrosia, all’interno dell’organo legislativo.
Proprio all’interno delle famiglie ci si iniziava a politicizzare, reclamando diritti, conducendo battaglie che sfociavano a volte in dichiarazioni di guerra adolescenziali.
Poi improvvisamente arrivò il vietato vietare. Importante assecondare lo spirito libero del fanciullo, troppo intelligente, troppo principescamente unico per essere relegato nel malessere della monotonia. I capricci diventarono espressività. L’educazione negava qualsiasi autorità, il bambino è un sovrano. Un predestinato che deve succhiare, assaporandoli, migliaia di stimoli, continue attività extra-scolastiche, in grado di formare il proprio capitale umano. Educare equivale ad investire.
Scomparsi gli spazi limitati ogni gesto è ideazione. Annullate le regole si può correre ululanti di gioia tra i tavolini di un bar, tra i teli stesi di una spiaggia, negli scompartimenti dei treni, grazie a sorrisi compiaciuti di genitori complici. Non si arresta mai la creatività.
Nessuno può essere bocciato, perché ogni fanciullo, ogni piccolo individuo ha una sua specificità da preservare, un’inclusione da proteggere, una funzione economica da salvaguardare. Qualsiasi trauma indica una regressione azionaria, una perdita di profitto.
La formazione di questo Io espanso è il generatore della violenza gratuita dei nostri tempi. Un Io bulimico, obeso nella propria tracotanza. Un soggetto che non conosce freni, norme, anche da sovvertire quando necessario. Il massimo egoismo è l’architrave ideologico che sostanzia la civiltà del massimo profitto, che dona eticità alla sopraffazione economica o allo sfruttamento. Si fabbrica un soggetto pedagogicamente depoliticizzato che si risolve in sé stesso.
L’Altro si assottiglia in bene strumentale, uno spettatore del vuoto comunicativo individuale che pretende acclamazioni. L’iperattivismo, l’ipervisibilità sono proprie del mondo in cui l’eccesso codifica un eterno presente.
Quando si parla in termini barbarici della violenza politica di anni ormai trapassati lo si fa strizzando l’occhio alla violenza arbitraria di oggi, compiacendo sempre l’idea che una società della prestazione, in grado di pretendere un saper essere e quindi un saper vendersi, procede comunque verso un orizzonte evolutivo.
La violenza politica si consumava in un collettivo, immaginava il conflitto per l’ingiustizia sociale, quindi poteva comprendere appelli morali e poteva concepire esistenze quasi monastiche tendenti finanche alla prostrazione personale. Il vocabolario della violenza contemporanea è sordo a qualsiasi insegnamento perché meramente utilitaristico, rappresenta l’ipostatizzazione dell’impresa di sé, del capitale umano; si può fare qualsiasi cosa per promuovere il proprio marchio.
L’unica dimensione collettiva è quella del clan, della banda che nutre l’auto-referenzialità. Tutto è marketing, la noia scompare.
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