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Diritti civili e capitalismo: l’amore ai tempi del marketing democratico

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Il “diritto di amare” sbandierato dalla Schlein ai Pride è divenuto merce nel mercato globale dei diritti. Tra identitarismo, retorica inclusiva e cinismo bellico, la democrazia totalitaria baratta libertà simboliche con il pieno controllo sociale ed economico.

L’amore a doppia mandata nel tempo della democrazia totalitaria

Fausto Anderlini*

Una segretaria di un partito sedicente di sinistra che, con tutto quel che succede intorno, va fino a Budapest per rivendicare il “diritto di amare”. Una sesquipedale idiozia, degna dei Baci Perugina. L’amore, la libido, per definizione è un’energia incomprimibile e non ha certo bisogno di una sfera giuridica per farsi valere. È così vero che, paradossalmente, i regimi normativi che mirano a imbrigliare la fenomenologia amorosa non fanno che aumentare l’autenticità e la forza dell’impulso, sfrondando ciò che è futile.

Non ho mai preso parte ai pride, pur concedendo tutto quel che si può – e anche oltre – a ogni forma di dionisiaca gaiezza. Mi infastidisce l’enfasi identitaria unita all’ostentazione di una fatua volontà di trasgressione. Nei fatti, i pride – quello di Budapest compreso – malgrado lo stoico desiderio di una repressione che non c’è stata (situazione analoga a quella di quando i nouveaux philosophes calarono a Bologna nel ’77 sfidando l’universo “concentrazionario” ordito da un PCI che li accolse, alla prova dei fatti, come gli ospiti più graditi), sono eventi che ormai ricadono nell’ordinarietà delle kermesse turistico-commerciali.

Persino lautamente sovvenzionate da sponsor di grido. Che tutto ciò si svolga all’insegna di una pretesa identitaria iper-universalistica, irrorata di un vittimismo da minoranza perseguitata pari soltanto all’esplosione di ludico orgoglio, non fa che aumentare il senso di una fastidiosa petulanza.

Ho sempre dubitato della teoria maslowiana sulla prepotenza relativa dei bisogni, cioè di una seriazione lineare e gerarchica dai bisogni di sicurezza e sussistenza, in sé rozzi e primitivi, a quelli affettivi e identitari, in sé ricchi e civilmente evoluti. Le lotte dei braccianti dell’Otto-Novecento per un minimo di sicurezza economica grondavano di identità ben più di quanto messo in campo dal fatuo identitarismo dei movimenti post-materialisti.

L’idea elaborata dalla sinistra, almeno a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, che l’espansione illimitata della gamma dei diritti universali – anche se con target a “serie corta”, cioè l’allargamento della democrazia a campi inesplorati – avrebbe cozzato contro la gabbia economicistica del capitale vanificandola, si è rivelata una pia illusione. Oggi tutta la gamma dei bisogni catalogati da Inglehart come post-materiali è ampiamente recepita e riconosciuta dal nocciolo duro del capitalismo postmoderno. Tanto da averli anteposti allo stesso diritto proprietario – sebbene in buona compagnia – nella definizione dello “stile di vita” che fa dell’Occidente il baluardo democratico in lotta contro le autocrazie.

C’è uno scambio conclamato e consensuale fra le masse in movimento per i diritti civili (e per l’ambiente) e l’apparato militare-industriale e finanziario che tiene le redini del sistema. Alle une il diritto di far festa, all’altro il diritto di fare la guerra e definire i rapporti sociali. Con le mani libere. Persino con la legittimazione di svolgere fondamentali compiti di protezione rispetto alle “conquiste” civili. Che la destra faccia la faccia cattiva rispetto alla postmodernità è un contrasto apparente. Solo un gioco delle parti. Del resto, le stesse destre sono un mix dove l’oscurantismo della tradizione si ingarbuglia con molti elementi, al caso anche smodati, di anarco-libertarismo.

Vedere sventolare qualche bandiera palestinese ai gay pride non li redime. È anzi una forma blasfema e patetica di falsa coscienza autoassolutoria. Il tardivo scandalo verso il genocidio palestinese ha un aspetto meramente retorico, dal momento che nessuna delle forze che nelle sedi istituzionali appoggiano le istanze LGBTQ, ecc., ha messo in campo un solo atto concreto per porre fine alla mattanza. Israele è cattivo quando macella Gaza, ma gode di un sostegno generale quando bombarda l’Iran eccedendo ogni limite legale. L’Iran è pur sempre il luogo dove, secondo la vulgata criminologica, i “diritti delle donne” e dei gay sono negati. Ben vengano dunque quelle bombe, sebbene facciano parte dello stesso disegno che guida la pulizia etnica in Palestina. Un legame neanche sospettato da questo tardivo e peloso umanitarismo.

* Dalle riflessioni social di Fausto Anderili

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