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Su un palco a Zurigo nel 1983, Pino Daniele e la sua band eruttavano pura lava sonora: fusion, funk, rock, sudore e urgenza. Una generazione intera in note e balbettii.
Pino Daniele come non l’avete mai sentito
Prima che giunga il profluvio di parole dedicate all’artista in occasione del decennale della morte, dico qualcosa di assolutamente non esaustivo sull’uomo di “Napule è” e “Nero a metà“. L’affetto che lega un pezzo di Napoli, una generazione, a questo artista è dovuto ad alcune cose che meriterebbero un approfondimento (migliore di quello dedicato da Martone a Troisi).
L’altra sera mi sono imbattuto in un concerto a Zurigo del 1983 – lo davano su Canale 21 – nota emittente locale campana- e mi sono trovato davanti alla band storica del nostro, quella con De Piscopo, Zurzolo, Amoruso e Esposito (mancava solo Senese) e ho pensato che Pino non ha mai più suonato così. Cioè, nemmeno nel bel live “Sciò“, di pochi anni dopo.
A Zurigo, nel 1983, quella band è una macchina pazzesca che propone una cosa abbastanza unica, forse non solo a livello nazionale. Sì, perché Pino e i suoi suonano una sorta di fusion latina, un jazz rock mediterraneo ma con un’energia inusitata per le formazioni di jazz rock del periodo. Suonano come una rock band.
Una menzione particolare deve andare evidentemente al lavoro ritmico incredibile di Tullio De Piscopo, che già era un batterista assai affermato, essendo stato tra le altre cose l’uomo ai tamburi in “Libertango” di Astor Piazzolla. Ma è tutta la band che macina di brutto swing, funk, jazz, un pizzico di afro beat (le versioni di alcuni pezzi di “Bella mbriana” che appaiono più rozze ed “embrionali” di quelle su disco) e che erutta suoni che sono pura lava sonora, forsennatamente, senza tregua, appunto come un gruppo rock anni ’70.
Sudore, frenesia, urgenza di dire, spavalderia. Recuperatelo se non l’avete mai visto.
A dispetto di questa sfrontatezza sul palco, credo che Pino avesse una sua fragilità.
Ad esempio, se lo raffrontiamo all’altro grande napoletano di quella generazione, cioè Troisi coi suoi balbettii, le sue incertezze, era invece Pino il timido, quello col rapporto meno risolto con la famiglia, la città, gli amici. Del resto il balbettio, come spiega Deleuze, è irriverenza, scardina le regole linguistiche, crea lingua nella lingua, e Massimo era consapevole del suo essere un innovatore (senza contare altre cose, il successo con le donne, l’assoluta assenza di soggezione in ogni contesto pubblico con l’ostentazione – mai ruffiana però – di un dialetto neonapoletano).
Pino è tutto, o molto, negli intermezzi, tra una canzone e l’altra: lì è l’opposto della sua chitarra ruggente, presenta gli elementi del gruppo sempre con misura, traspare una delicatezza, un modo d’essere che non ha nulla di istrionico o roboante.
Le due inquietudini, quella di Pino e quella di Massimo, si completano, sono complementari, a ben vedere. La convergenza è nei tempi. La recitazione di Troisi, eduardiana – chi avrebbe potuto rifare Eduardo al teatro senza sfigurare, demolendolo e salvandone lo spirito se non lui? – e oltre Eduardo, ha tempi perfetti come la macchina allestita da Pino su quel palco.
È un sound che scorre con una sua fluidità ma anche con scatti, arresti, proprio come i pensieri e i sentimenti portati dagli affanni di Troisi, le sue frasi smorzate.
Quasi come se l’incomunicabilità di una generazione di napoletani, le loro difficoltà sentimentali, il loro approccio problematico con la tradizione e con la stessa modernità diventassero con questi due grandi artisti un punto di forza, l’unico modo per raccontarsi senza remore, di rivendicare e prima ancora inventare una nuova normalità che non rinunci all’appartenenza ma si proietti ad un livello nazionale e globale.
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