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Difendere i miliardari è diventato un riflesso comune, anche tra chi subisce le disuguaglianze. Il mito del genio solitario offusca la realtà: il capitalismo resta predatorio e i profitti si reggono sul lavoro collettivo. Ma la coscienza di classe è sparita.
Bezos e chi difende i padroni: elogio involontario dell’oligarchia
Ogni qualvolta a chicchessia venga in mente di contestare un capitalista, immediatamente arrivano le classiche argomentazioni a sua difesa. Non è detto che queste provengano necessariamente da think tank, da fondazioni bancarie, da università private, insomma da enti istituzionalmente preposti all’apologia del capitalismo, perché spesso sono proprio le persone comuni a spendersi per coccolare empaticamente gli oligarchi occidentali.
Così quando monta, giustamente, quel tanto di indignazione sociale per l’esposizione smaccata di un multimiliardario che sequestra un’intera città a fini privati, ecco che parte la solita tiritera, una litania lunga almeno quarant’anni, sull’uomo geniale che ha avuto una visione, una scintilla creativa grazie alla quale ha elargito, da benefattore, posti di lavoro, ricchezza e vitalità culturale. Ancora troppe teste sono abbacinate dal mito manipolatorio del management di sé stessi, dalla retorica del sogno da conquistare con le proprie forze.
Dalla caduta del Muro in poi questa antologia concettuale è diventata buon senso comune, difficile quindi da scalfire perché l’armamentario logico socialista, per molto tempo comoda cassetta degli attrezzi, è caduto in disuso per scarsa capacità seduttiva.
È poco moderno, qualcuno ancora si affretta di ripetere. Fatto sta che da allora l’oggetto del risentimento sociale è passato dall’economico al politico. Appare del tutto usuale, oggi, manifestare contro un Presidente del Consiglio mentre sembra quasi fuori luogo far passare delle brutte mezz’ore alla “genialità” d’impresa.
Scaturigine questa della vecchia questione morale, quando, purtroppo, il Partito comunista si prodigò, insieme a “La Repubblica”, nella costruzione della nuova società civile interclassista.
A nessuno viene più in mente che è proprio la collettività a permettere il profitto e il privilegio del capitalista. È la postura del movimento dei lavoratori a rendere facile o complessa l’esistenza di un tycoon come Jeff Bezos.
Il vecchio adagio secondo cui i capitalisti sono pochi e influenti, mentre i lavoratori, per diventare potenza, devono apprendere coscienza di classe e far valere il fatto di essere massa, è stato completamente archiviato.
Questo semplicissimo postulato arricchirebbe di molto il dibattito pubblico perché d’incanto si tornerebbe a discutere dei fondamentali politici in una società capitalista: il conflitto tra capitale e lavoro che disegna la civiltà costituzionale, per esempio.
Si tornerebbe ad ammettere che lo spirito capitalista è predatorio, e può essere solo predatorio, soprattutto se lasciato libero di fluttuare nell’aria senza scomodi ostacoli, quali la classe, il conflitto, lo stato sociale.
Il capitalismo procederà sempre verso il profitto e mai verso l’umanità. Motivo per cui i Bezos di turno dovrebbero ritenersi fortunati e riconoscenti a vivere nel clima di ingenuità diffusa che contraddistingue la contemporaneità, quando gli viene concesso di usurpare per tre giorni il patrimonio pubblico per scopi ludici e renderlo un club privé di illuminati dediti alla sociopatia intellettuale.
Sociopatia supportata, purtroppo, da tanti vicini di ombrellone e da vecchi compagni di banco, ormai ammaliati dall’arroganza ottusa dei cosiddetti vincenti.
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