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Benigni, fantasma di se stesso: un comico di potere, non contro il potere

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Roberto Benigni, da comico irriverente a cantore del potere. Celebra Mattarella, riscrive la storia e giustifica guerre citando la Costituzione. Da satire pungenti a servilismo istituzionale, il suo talento si piega al pensiero dominante. Non più contro il potere, ma suo fedele interprete.

Roberto Benigni, un comico di potere

Che Roberto Benigni sia ormai un uomo di palazzo è cosa nota. Che abbia riscritto la storia facendo liberare Auschwitz dagli americani anziché dai sovietici, “perché così si prendono gli Oscar” come sentenziò senza mezzi termini Mario Monicelli, è altrettanto assodato. Ma evidentemente non bastava.

La sua bulimia di adattamento al presente lo ha portato a spingersi ancora più in là, contando sulla realtà ‘liquida’ e sul revisionismo continuo che caratterizza il nostro paese. Così, da comico corrosivo e irriverente, Benigni si è trasformato in un’icona dell’establishment, uno di quei personaggi che parlano dal pulpito del potere anziché sfidarlo.

Già al Festival di Sanremo del 2023, Benigni aveva dato un saggio del suo nuovo ruolo, citando l’articolo 11 della Costituzione per giustificare l’invio delle armi in guerra.

Un’interpretazione a dir poco creativa e che suonava come un evidente assist al potere di turno. Ma non solo: nel suo intervento evitò accuratamente di menzionare la Resistenza parlando dell’oppressione fascista, in perfetta sintonia con il revisionismo storico sempre più in voga.

D’altra parte, non sarebbe la prima volta che si mette a servizio del potere: fu lui a celebrare la riforma costituzionale di Matteo Renzi, un’operazione che avrebbe dovuto “migliorare” la Costituzione più bella del mondo, salvo poi essere bocciata con un sonoro “no” dal popolo italiano.

Quindi, quando Benigni si lancia in una dichiarazione come: “Presidente, siamo sempre vicini alle sue parole, ci riconosciamo, non abbiamo mai sentito uscire da lei una parola che non fosse di verità e di pace”, lo stupore dovrebbe essere ormai azzerato.

Ma di quale pace parla il nostro cantore istituzionale? Forse di quella che ha portato i bombardamenti sulla Serbia nel 1999 con l’uso di uranio impoverito? O della posizione ultratlantista dell’Italia nella guerra per procura in Ucraina? O, ancora, del silenzio complice sul genocidio in atto a Gaza? Se c’è una cosa che il Benigni attuale sembra non fare più, è esercitare la memoria storica e la critica.

Del resto, non ci vuole molto a smontare questa narrazione. Basta riavvolgere il nastro e ascoltare l’intervento di Sergio Mattarella al Senato il 24 marzo 1999, reperibile ancora oggi sul sito di Radio Radicale, per farsi venire i brividi. In quell’occasione, il nostro “presidente della pace” giustificava i bombardamenti su Belgrado con un fervore che oggi suonerebbe quanto meno imbarazzante.

Benigni non è più il giullare di una volta, quello che irrideva i potenti e sfidava i dogmi. Non può più permettersi la maschera dell’uomo di popolo, così si è attaccato al carro della sinistra post-comunista, trasformandosi in un fedele interprete del nuovo ordine.

Il problema è che il suo talento ne ha risentito: il suo nuovo ruolo di cantore istituzionale lo ha sterilizzato, svuotato di ogni autenticità. Se qualcuno pensa che il Benigni di oggi faccia satira, evidentemente non sa cos’è la satira. Satira era il Benigni degli anni ’80, quello del monologo degli improperi in “Berlinguer ti voglio bene”, quello che chiamava il Papa “Wojtylaccio” e che per questo fu bandito per anni dal Festival di Sanremo. Quello che vediamo oggi è un cerimoniere del potere.

Il punto più basso lo ha forse toccato proprio in questo Festival, facendosi portavoce non richiesto del sentimento nazionale, e ha espresso solidarietà a nome di tutti a Mattarella.

Un atto che molti italiani, in realtà, non condividono affatto, specialmente dopo il clamoroso scivolone del Presidente nel paragonare la Russia al Terzo Reich. Un’affermazione storicamente assurda, considerando che proprio la Russia, con i suoi 28 milioni di morti, ha avuto un ruolo decisivo nella sconfitta del nazismo.

Tra l’altro, rispetto all’isteria dei nostri megafoni atlantisti che imperversano su tv e giornali, la portavoce russa Maria Zaharova ha reagito con estrema compostezza, molto più di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi.

Benigni oggi è il fantasma di se stesso. Ha tradito ciò che era, ha rinunciato alla sua carica sovversiva per diventare un interprete zelante del pensiero dominante. Non è più un comico contro il potere, è un comico del potere. E per chi lo ricorda ai tempi del suo autentico fulgore, la sua parabola non può che essere motivo di amarezza.

Non c’è più lo sberleffo, non c’è più il coraggio, non c’è più la provocazione. Resta solo un omaggio perpetuo alla narrazione ufficiale, un’involuzione che stride con la memoria di chi lo aveva amato per ben altre ragioni.

E la cosa più ironica è che, se si fosse trovato davanti un personaggio così, il vero Benigni degli anni ’80 ne avrebbe fatto un bersaglio perfetto.

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Alexandro Sabetti
Alexandro Sabetti
Vice direttore di Kulturjam.it -> Ha scritto testi teatrali e collaborato con la RAI e diverse testate giornalistiche tra le quali Limes. Ha pubblicato "Il Soffione Boracifero" (2010), "Sofisticate Banalità" (Tempesta Editore, 2012), "Le Malebolge" (Tempesta Editore, 2014), "Cartoline da Salò" (RockShock Edizioni)

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