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In Israele, alcuni giovani pacifisti, detti “refuseniks“, rifiutano il servizio militare, opponendosi all’occupazione e alla guerra. Subiscono carcere, stigma sociale e minacce, ma il loro numero cresce. Movimenti come Mesarvot li supportano, sfidando il governo Netanyahu e l’IDF.
Refuseniks
Non vi sono solo i palestinesi a resistere alla continua aggressione militare israeliana e al feroce apartheid che va avanti da più di 75 anni a danno degli stessi.
Vi sono anche taluni israeliani, già, i cosiddetti “refuseniks” (le origini del termine risalgono all’era sovietica, al tempo si riferiva agli ebrei a cui veniva negato il diritto di emigrare in Israele).
Sono ragazze e ragazzi che, pacifisti, si rifiutano di indossare una divisa e andare a sparare a giovanissimi ragazzi palestinesi, spesso loro coetanei. Sono i giovani che si rifiutano di prestare servizio nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF); come è evidente sono una minoranza coloro che manifestano questa difficile volontà, anche se tale fenomeno sembrerebbe essere molto in crescita a un anno e più dal 7 ottobre 2023, al punto che non è possibile conoscere i numeri esatti perché l’esercito israeliano – in totale assenza di trasparenza – non è disponibile a rilasciare dati sull’argomento, temendo che possa crearsi un’onda di dissenso interno sempre maggiore verso la spregiudicatezza militare del proprio Paese.
Ad ogni modo sono almeno 130 ragazzi e ragazze che a fine 2024 si son rifiutati di prestare servizio militare. I ragazzi israeliani che scelgono questo percorso estremamente tortuoso e complicato per la loro stessa esistenza sono convinti che la soluzione del conflitto in Medio Oriente non debba passare dalle armi, ma dalla politica.
Le loro idee e scelte sono la nuova spina nel fianco del governo guidato da Benjamin Netanyahu, premier sempre più in difficoltà cointestato in patria e fuori, alla luce del terribile massacro di decine di migliaia di donne e bambini effettuato in soli quindici mesi nella Striscia di Gaza che gli ha procurato un mandato di arresto per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale.
Quella dei refuseniks non è una scelta facile, ma è anzi molto coraggiosa: in Israele, vi è l’obbligo del servizio militare di durata di tre anni per le persone di genere maschile e di due anni per quelle di genere femminile, dopodiché possono essere ancora mobilitati rispettivamente fino al compimento del 40° e del 38° anno d’età.
In Israele non ci si può rifiutare quindi di prestare servizio nelle forze armate, aspetto che entra fortemente in contrasto con gli standard internazionali sui diritti umani e le leggi umanitarie internazionali. Non esiste servizio civile alternativo, sono esentati dal dover prestare servizio militare solo gli arabi israeliani (un 20% circa della popolazione) e gli appartenenti alla comunità ebrea ultra-ortodossa.
I riservisti, elemento essenziale per l’esercito, sono circa il 4% dei quasi dieci milioni di abitanti del Paese. Con i palestinesi, i refuseniks condividono spesso la stessa sorte di processi iniqui, sommari, profondamente ingiusti. Restano in carcere anche per diversi anni rinchiusi in penitenziari durissimi.
Son ragazzi questi, gli obiettori di coscienza israeliani, molto apprezzabili, che fanno una scelta molto coraggiosa che spesso pagano a caro prezzo anche per via dello stigma sociale che si porteranno addosso per tutta la vita, venendo fortemente isolati da amici, parenti e conoscenti, spesso insultati o minacciati e con un CV che porta traccia di tale loro diniego e che conseguentemente in tal senso parla per loro, dal momento in cui il servizio militare nello Stato ebraico viene reputato dalla maggior parte della popolazione come uno dei pilastri dell’identità nazionale.
Ad ogni modo per fortuna in Israele c’è chi dice NO, come intellettuali, esponenti politici, associazioni, liberi cittadini; come il Movimento delle Donne in nero, donne ebree israeliane che si oppongono all’occupazione dei territori palestinesi e che protestano davanti alle carceri israeliane quando si processano detenuti politici palestinesi.
Vale la pena ricordare, ad esempio, che nel 1989 si son date appuntamento a Gerusalemme trentamila persone (italiani, europei, palestinesi e israeliani) per una grande catena umana di pace attorno alle mura della città. Era Time for Peace, una grande, magnifica manifestazione per la pace e del rifiuto della logica di guerra. Una delle più note refuseniks è senz’altro la giovanissima Sofia Orr, renitente alle leva per motivi politici dal 7 ottobre 2023: “l’attacco del 7 ottobre doveva essere previsto, perché quando sottoponi le persone a violenza estrema, la violenza estrema si ritorcerà contro di te. È inevitabile”, ha avuto modo di dichiarare; “se non si offre alcuna alternativa ai palestinesi, loro inevitabilmente saranno portati a pensare che la resistenza violenta sia l’unica via…”, ha continuato.
Per via di quanto sopra, la Orr è stata appellata “traditrice della patria” e “ebrea che odia se stessa”, ha ricevuto insulti e minacce di morte. Fortunatamente esiste l’associazione Mesarvot (“coloro che rifiutano”, in ebraico), che in tal senso si occupa di informare e consigliare i giovani e fornisce sostegno legale a ragazzi e ragazze condannati ad una pena detentiva.
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