Il 7 aprile 1992 iniziava su Rai3 la messa in onda di uno dei programmi più rivoluzionari della storia della televisione: Cinico TV di Ciprì e Maresco.
Con Cinico TV Ciprì e Maresco portano l’impensabile in prima serata
Nel 1932 Tod Browning in “Freaks” mette in scena attori realmente deformi (un nano e una nana, le gemelle siamesi, un ermafrodito, l’uomo-torso senza arti, una donna senza braccia, l’immancabile donna barbuta, un “mezzo ragazzo” senza gambe, ecc.) che si esibiscono in un circo.
Sessanta anni dopo Daniele Ciprì e Franco Maresco fanno irrompere sul piccolo schermo una galleria di soggetti altrettanto inquietante: in Cinico TV (su RaiPlay trovate la prima delle quattro stagioni, 49 puntate più qualcuna extra) compaiono persone di una tipologia che il telespettatore non ha mai visto prima, un’umanità sottoproletaria e malconcia quant’altre mai, tirata fuori da chissà quali anfratti di Palermo e invitata a interpretare una rappresentazione grottesca della propria disgraziata esistenza.
Essendo conterraneo dei due registi, posso testimoniare che nelle zone povere di quella città gli individui di tal fatta non sono una rarità. Il colpo di genio sta nel trovare per loro uno spazio nella settima arte (pur trattandosi di un programma televisivo, credo si possa dire che lo stile è decisamente cinematografico). E, poiché la fortuna aiuta gli audaci, la Rai (che era ancora una televisione pubblica comme il faut) ha il coraggio di trasmettere questa roba in prima serata (mi pare di ricordare che andasse in onda verso le 20:00).

L’uomo viene esposto da Ciprì e Maresco nella sua fragilità esaltata dalla seminudità (a torso nudo o in mutande), e l’atroce bassezza della condizione dei prescelti viene scarnificata dalla voce fuori campo di Maresco, che interroga e infierisce. (La storia di impegno civile di Maresco fa escludere ogni intenzione che non sia retta e proba, pur se le apparenze porterebbero ad attribuirgli una qualche forma di sadismo intellettuale).
E allora vediamoli questi nostri fratelli così diversi da noi.
Giuseppe Paviglianiti (1941-2000), forse il più noto a causa del suo aspetto indimenticabile (ventre enorme e capelli unti), della mimica che assumeva quando emetteva (finti) peti dalla lunghezza e frequenza improbabili, e del suo meraviglioso tormentone “Certamente!”.
Pietro Giordano (1947-2017), non privo di capacità interpretativa e proprietà di linguaggio, il suo personaggio è consapevole di essere una nullità, qui lo vediamo addirittura impersonare un escremento:
Rocco Cane, al secolo Marcello Miranda, non parla mai, è un frenastenico che quasi sempre si limita a stare in scena (spesso a occhi chiusi), salvo quando mima freneticamente atti sessuali.
Fortunato Cirrincione (1944-2008), incapace persino di pronunciare correttamente il suo nome, sarà poi uno scatenato Lazzaro in “Totò che visse due volte”.
Francesco Tirone (1930-2001), perennemente in tenuta da ciclista agonista, stralunato ma molto vispo nei dialoghi con la voce fuori campo.
Giuseppe Filangeri, ragazzo che vive in un mondo tutto suo dominato dalla religione (o meglio dei dogmi e della pratica religiosa), impersona sé stesso, e temo che non potrebbe fare altro.
Chiudo con i fratelli Abbate, Franco e Rosolino, i miei preferiti. Rispondono in coro, con veemenza. Sono ossessionati dalla sessualità, la loro educazione sull’argomento si è svolta al cinema Embassy si lagnano del fatto che le donne “provocano” perché hanno “tette, vergogna e culo” e non ce lo dovrebbero avere (quest’ultimo), e invece “ce l’hanno”.
CINICO TV – Famiglie Felici e Figli Devoti
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