La finale di Champions League Inter-Manchester City è stata preceduta, come nella tradizione autolesionista della sponda nerazzurra, considerando gli avversari battuti in precedenza, scarsissimi; Quelli invece vittoriosi, inarrivabili.
L’interista esistenzialista: ancora su Inter-Manchester City
Non erano in molti a pensare che la prestigiosa finale che l’Inter andava ad affrontare fosse tutt’altro che in persa in partenza. Eppure bastava dare una semplice scorsa al percorso fatto per raggiungerla.
Per una sorta di de-escalation, gli avversari che si sono avvicendati lungo il percorso, sono diventati via via meno impegnativi. Così si era partiti incrociando Bayern Monaco e Barcellona, con la consapevolezza di essere senz’altro meno attrezzati rispetto a quelle corazzate. Poi, agli ottavi di finale si era trovato il Porto, contro il quale la qualificazione era stata strappata coi denti, dopo un ritorno al cardiopalma con i dragoni proiettati all’attacco, arrivando più volte vicinissimi al colpo del kappao.
Più facile era risultato addomesticare il Benfica, in pratica eliminato già alla fine della partita di andata. Ancora più facilmente si era risolta la questione col Milan, pure loro già quasi estromessi dall’esito della partita di andata.
Certo, sperare di battere il City ancor più facilmente rispetto alle squadre che l’avevano preceduta, era follia pura. Però che l’Inter avesse preso coscienza delle proprie potenzialità era sotto gli occhi di tutti. Di tutti, tranne di quelli dei giornali sportivi che invece recitavano già il “de profundis” preconizzando rotte disastrose con cumuli di gol a seppellire i malcapitati. Non che i tifosi ne fossero proprio convinti.
Come nella tradizione autolesionista della sponda nerazzurra, gli interisti considerano gli avversari che battiamo, scarsissimi. Quelli che ci battono, inarrivabili. Per quei prevenuti, la prova incontrovertibile delle scarse potenzialità dell’organico era stato il doppio confronto con il Bayern, con i tedeschi vittoriosi sia all’andata che al ritorno nel girone di qualificazione. L’equazione proposta era: se non fai neanche un punto contro i tedeschi come puoi pensare di arrivare finale di Champions League?
Già tanto se superi il turno, figurati. Per fortuna i giocatori non leggono i giornali e a quella finale ci sono approdati comunque. Le finali difficilmente hanno esiti scontati, molto spesso chi è strafavorito poi non stravince e nelle peggiori delle ipotesi può capitare persino che perda. Come capitato proprio all’Inter, che ha vinto due delle sue finali che la vedevano sfavorita: col Real Madrid nel 1964 e contro il Bayern Monaco nel 2010.
Altre finali con risultati inattesi furono quella dell’Aston Villa vittorioso contro il Bayern nell’82, quella dell’Amburgo che l’anno dopo regolò la Juventus con un gol da cineteca di Magath, lo Steaua Bucarest che battè il Barcellona nell’86, il Dortmund contro la Juve nel 97, e infine il Chelsea proprio contro il City di Guardiola nel 2012.
En passant, una delle finali in cui l’Inter è partita da superfavorita l’ha poi vista sconfitta: era l’anno 1967, i campioni quell’anno furono quelli del Celtic di Glasgow che si imposero per 1 a 2. Manchester City-Inter sarebbe potuta somigliare più a quel trionfale Inter-Real Madrid già citato o piuttosto a Inter-Ajax, quest’ultima persa senza attenuanti nel 1972? Disquisizioni che butto lì solo per convincervi, ora per allora, che finali dall’esito già scritto non ci sono mai state né mai ce ne saranno.
Nel nostro caso poi c’era ancora un’altra discriminante, il “fattore Inzaghi”. Le finali che prepara il tecnico nerazzurro vanno sempre in una certa direzione, la vittoria. Non è una sensazione ma semplice questione di numeri: il tecnico piacentino ha, nella sua carriera d’allenatore, disputato otto finali, vincendone sette e perdendone solo una, la prima, per mano della Juventus. Ma parliamo di finali nazionali, in ambito UEFA quella di ieri è stata la sua prima finale in assoluto. Ma anche senza citare le finali, il bilancio delle partite “secche” condotte dal tecnico piacentino è positivo, con le partite ad eliminazione diretta quasi sempre condotte in porto attraverso il gioco e i risultati.
Il resto lo ha fatto il team di cui da sempre si avvale, che ha fatto arrivare a fine stagione la squadra in condizioni ottimali, sia fisicamente che mentalmente. Lo spartiacque tra un campionato di serie A balbettante e una cavalcata eroica su tutte e tre le competizioni in cui era impegnata, è arrivata dopo la deprimente sconfitta casalinga contro la Juventus il 23 gennaio scorso, per 0-1. Dopo quella debacle, la squadra si è ricompattata e ha cominciato a riprendere il filo del discorso.
Ha perso altre partite, ma sono arrivate in condizioni diverse rispetto alle precedenti e mentre la squadra doveva dissipare preziose energie in tre competizioni. Una volta archiviata la semifinale di Coppa Italia eliminando la Juventus, è stato un continuo crescendo. Dal 19 Aprile fino alla finale di Champions League perderà solo contro il Napoli in una partita viziata dalla follia di Gagliardini, mettendo in carniere la Coppa Italia e vincendo contro Roma, Atalanta e i due derby di coppa.
Così l’Inter si è presentata allo Stadio Olimpico Ataturk al cospetto del City pronta, motivata e a posto fisicamente, a parte Skriniar e il da poco recuperato Mkhitarian. Dall’altra parte Guardiola ha dovuto rinunciare a Walker per gli stessi motivi che hanno fermato l’armeno interista. Sugli spalti dello stadio le curve ospitano da una parte la meravigliosa coreografia nerazzurra con settori neri intervallati da quelli azzurri su cui campeggiano le lettere a comporre il nome “Inter”, delimitata da tricolori da entrambi i lati.
Dall’altra, i settori sono dipinti di bianco e celeste, i colori dei “Citizens”. Cinquantamila spettatori saranno testimoni di quello che sta per succedere sul campo. Pronti-via, salta subito all’occhio che Brozovic si è messo su Gundogan per isolarlo dall’azione avvolgente dei blue sky, Calhanoglu su Stones, osso duro da tenere a bada, Barella si occuperà di De Bruyne per provare a mortificargli la vena creativa. Marcature uomo su uomo ma con beneficio di inventario e di comprendonio: quando il City fa densità nei pressi del cerchio di centrocampo, il piccolo tamburino sardo molla De Bruyne e lo lascia alla custodia di Darmian, perché intanto c’è pure da far legna.
Inaspettatamente, ma solo per quelli che vedevano solo nero, la partita rimane bloccata per almeno venti minuti, il minimo sindacale perché ognuno possa studiare l’avversario, perché l’interrogazione è di là da venire. È il City, come previsto, a tenere più palla anche se non nella percentuale prevista dai soliti soloni.
Lo spauracchio Haaland viene curato con raziocinio da Acerbi, che lo anticipa sistematicamente, a volte anche con le brutte ma senza che si noti troppo. Gli scappa via una sola volta, perché costretto a chiudere una palla scoperta di De Bruyne; Il belga lo serve in profondità mandandolo davanti ad Onana, che riesce a respingere il suo tiro, forte ma centrale; È il ventisettesimo e sarà l’unico tiro in porta del norvegese della partita.
Il City non è squadra da avere solo un piano di gioco, così con Bernardo Silva a puntare di continuo il suo dirimpettaio Dimarco, Grealish alla continua ricerca del fondo, non ci si può permettere di abbassare di una sola tacca l’attenzione. Che infatti rimane alta.
I Citizens arrivano primi su ogni palla vagante, stanno compatti ed alti ma non riescono a proporsi in attacco. L’Inter fa la parte sua con applicazione ragionata, pressa alto sul primo possesso palla ma poi, fallito il tentativo di recupero, ripiega immediatamente per riprendere a fare massa a centrocampo. Gundogan viene ben contenuto in fase di non possesso da Broz, a Calhanoglu tocca faticare di brutto per tenere Stones col risultato di non riuscire a partecipare all’azione offensiva come vorrebbe.
Barella è invasato, rincorre tutto e tutti anche perché De Bruyne si è molto decentrato portandosi quasi a ridosso dell’out di sinistra. È il 30esimo quando la telecamera inquadra la faccia preoccupata del fulvo belga. E’ seduto per terra, si tocca la parte posteriore della coscia, si è fatto male? Uscirà? Si, cinque minuti dopo, giusto per provare a vedere se la gambetta può far ancora il suo dovere. Entra Foden.
In teoria il Man perde qualcosa in geometrie e creatività, potrebbe essere una buona notizia. In effetti l’unica occasione da gol del City era nata proprio da una sua verticalizzazione. Il City deve rivedere la sua disposizione: Gundogan va a fare il De Bruyne in posizione di mezzo sinistro e si becca la stessa marcatura del suo predecessore, per lui non una buona notizia. Intanto il primo tempo è finito, dei cinque gol che l’Inter avrebbe dovuto incassare non se ne è visto nemmeno uno.
In compenso si è visto Acerbi annullare Haaland, giusto per farlo notare a quelli che di calcio ne capiscono assai. Il secondo tempo riprende a ritmi bassi, si sta entrando nel momento topico del match e nessuno vuol fare mosse azzardate. Siccome si è scoperto che anche gli inglesi sono uomini e non dei, e siccome gli uomini a differenza degli dei fanno castronerie, ecco che quella che sarebbe potuta essere la vera (e forse definitiva) svolta della partita, viene apparecchiata proprio dai favoriti.
Akanji non raccoglie un passaggio sbilenco di Bernardo Silva convinto che dietro di lui Ederson possa intervenire. Quel passaggio diventa una palla vagante su cui Lautaro si può avventare ritrovandosi a tu per tu con il portiere, molto defilato sulla sinistra. A quel punto le opzioni sono due: la prima, la più sensata, passare la palla indietro all’accorrente Brozovic per un comodo appoggio in rete a porta sguarnita; la seconda, la più improvvida, tentare il tiro a giro, verso il secondo palo.
Purtroppo Lautaro si fa ingolosire dalla vicinanza della porta e non considera la prima opzione. Ederson si spalma lungo la luce di porta e para con la spalla. Il peccato di Lautaro è capitale, non tanto perché fa la scelta sbagliata, quanto perché se avesse rinunciato alla gloria personale lasciando l’incombenza di fare gol a chi meglio piazzato di lui, avrebbe costretto il Manchester ad un altro tipo di partita.
Sotto di un gol, Guardiola avrebbe dato mandato ai suoi di attaccare con più foga, obbligandosi a concedere all’Inter quelle possibili ripartenze che Lukaku avrebbe potuto poi sfruttare come meglio sa fare. Non è lecito aspettarsi ulteriori regali, uno è già troppo.

C’è tempo di rammaricarsi per dieci minuti ancora, poi il rammarico diventa rimpianto perché il City passa in vantaggio. Akanji trova l’unico buco difensivo dell’Inter dall’inizio della partita approfittando di uno scivolone di Dimarco e serve palla al lanciato Bernardo Silva. Il portoghese prima raggiunge la linea di fondo, poi fa quello che avrebbe dovuto fare Lautaro: mettere la palla dietro. La accomoda sul piede dell’accorrente Rodri che di spazio per mettere la palla in porta ne avrebbe poco, ma quando si hanno piedi buoni, il modo lo si trova. Fa passare la palla giusto nel pertugio che insiste tra Darmian e il palo: il gol dell’uno a zero arriva al 67esimo.
La partita cambia in un attimo; l’Inter, costretta a mollare gli ormeggi, si libera dalle pressanti attenzioni difensive e prova con orgoglio a ribaltarla. E potrebbe persino riuscirci con un po’ di attenzione, precisione e fortuna in più. Al 70esimo Dumfries vince un duello aereo su uno spiovente al limite dell’area di rigore biancoceleste facendo pervenire la palla a Dimarco che, solo davanti ad Ederson, lo scavalca con un pallonetto.
La palla purtroppo incoccia sulla traversa e ritorna verso lo stesso Dimarco che prova a ribadire in rete, sempre di testa, trovando però un imprevisto ostacolo tra lui e la porta, Lukaku. Probabilmente l’ultimo tentativo del difensore sarebbe stato comunque catturato da uno dei difensori sistemati sulla linea di porta, ma c’è comunque di che mangiarsi i gomiti.
Ancora, al 87esimo Brozovic spedisce l’ennesimo traversone nell’area dei Citizens, un nuovo duello aereo viene vinto dai nerazzurri con Gosens che si arrampica sulle spalle di Bernardo Silva e offre una invitante palla a Lukaku che di testa deve solo indirizzare nel sacco, a colpo sicuro.
Ederson è baciato dalla fortuna, gli basta alzare un ginocchio per deviare la palla in altra direzione che non la propria porta. E’ il frutto dello sforzo finale, dell’orgoglio che supera l’acido lattico, delle unghie che non si rassegnano a mollare la presa su una partita che sta scivolando di mano. Non è uno sforzo che però si paghi senza conseguenze, perché nel frattempo Foden si è ritrovato a tu per tu con Onana, che ha parato indovinando l’angolo di tiro del centrocampista inglese.
Sono rischi che è necessario correre, perché perdere per zero a uno o zero a due, non fa nessuna differenza. E’ ormai il novantesimo e spiccioli, già recuperare palla ai formidabili palleggiatori inglesi è un’impresa. Ma anche a loro, pur dall’alto della loro sapienza tattica, viene il braccino e al novantacinquesimo ormai scoccato, regalano un ultimo calcio d’angolo all’Inter. È davvero l’ultima possibilità.
Il cross di Dimarco finisce sulla testa di Gosens che indirizza verso la porta; Ederson para anche quella palla, probabilmente destinata a finire in fondo alla rete, ma altrettanto probabilmente sarebbe stata respinta da uno dei difensori arroccati sulla linea di porta. È l’occasione che coincide con il fischio dell’arbitro che decreta la fine della tenzone.
Nel tripudio Sky Blues i ragazzi di Guardiola corrono ad abbracciarsi nel cerchio di centrocampo. Sono finalmente campioni, dopo essere stati vicino tanto così a non vincere nemmeno questa volta. Poco da rimproverare ai ragazzi in nerazzurro se non, sommessamente, raccomandargli – per il futuro – di non prendersi beffe della sorte, perché prima o poi quella te la fa pagare. Prendano esempio da quelli del Manchester che si sono creati un solo paio di occasioni ma hanno capitalizzato per almeno il cinquanta percento. Non userò la forma retorica della “uscita a testa alta” perché questa implica l’assunto che chi ha vinto fosse notevolmente più forte di chi ha perso.
Il campo invece ha detto altro, raccontando una partita che si è giocata alla pari. Nella tenzone l’Inter ha messo convinzione e una giusta, sana strafottenza, dando del tu agli arcicampioni del Manchester City. Non è stata surclassata come si aspettavano in molti.
Ha ceduto davanti ad una squadra che, molto più semplicemente, è stata più solida nelle sue consapevolezze. Consapevolezze che erano più consolidate di quelle interiste perché provenienti da più lontano, da anni di tentativi mal riusciti, di frustrazioni, di sconfitte arrivate sul filo di lana.
Quelle dell’Inter erano invece più recenti, di cui si era presa coscienza solo nella primavera scorsa, quando ha scoperto, risultati alla mano, di essere in grado di battere chiunque. Quel divario tanto decantato, cui la maggior parte dei tifosi a furia di sentirselo dire si erano convinti che esistesse, si è dimostrato farlocco nei fatti. Non è una mia valutazione, conterebbe giusto la manciata di caratteri che ci ho messo per riferirla.
È la valutazione di Guardiola che non ha avuto problemi a riconoscere che la partita si è girata dalla loro parte solo grazie a degli episodi favorevoli. Facile ammetterlo dopo aver vinto la Champions, verrebbe da dire. Ma significherebbe non conoscere i trascorsi del tecnico spagnolo, sempre molto corretto e schietto, fino alla spietatezza, nei suoi giudizi. Nel panorama degli allenatori del nuovo millennio è quello che ha portato le più importanti innovazioni tattiche nel movimento calcistico, merita in pieno quello che sta ottenendo dalle squadre che è chiamato ad allenare.
Certo, i suoi successi sono arrivati sempre dal ponte di comando di corazzate invincibili, da proprietà oscenamente danarose, da magnati mediorientali a cui basta aprire il portafoglio per portare i nomi più ambiti dal circo calcistico. Le sue squadre, Bayern, Barcellona e Manchester City, rispondono tutte a quegli identikit.
Mi piacerebbe, un giorno vederlo alla guida di un club che si barcameni tra parametri zero, atleti over 30, prestiti e giovani da lanciare. Come un Inzaghi Simone qualsiasi. Sarebbe una bella sfida pure per lui, io ci penserei. Nei giornali di stamattina, nei social, nelle interviste del post-partita prendo atto di tifosi che si dicono amareggiati per il risultato massimo non conseguito, per il non aver fatto la partita come invece dopo lo svantaggio.
È il senno di poi che emerge dal rimpianto: quella condotta di gioco è venuta dall’emergenza, pensare di disputare un incontro a viso aperto contro i fortissimi Citizens sarebbe stato un autentico suicidio tattico, come già dimostrato da Lipsia, Bayern Monaco e Real Madrid, sottoposte tutte alla medesima gragnuola di gol. Si parta piuttosto dal presupposto che alla vigilia del match dell’anno, tutti chiedevano all’Inter niente di più che una prestazione dignitosa. Per quello 0-1 molti avrebbero persino firmato.
Ebbene, l’esito è andato ben oltre il previsto, e non c’è che da esserne orgogliosi. A chi sostiene che piuttosto che perdere una finale avrebbero preferito la subitanea eliminazione, consiglio di non travisare i termini del concetto sportivo; L’importante non era vincerla, quella finale: era importante disputarla. Perché ci si deve arrivare, per disputarla. Tra l’essere eliminati subito e perdere malamente una finale c’è di mezzo tutto un viaggio fatto di passione, sofferenze, esaltazioni e crolli verticali. Di rotte disastrose e di limpide vittorie, di delusioni cocenti e auree speranze.
In quella medaglia da secondo posto c’è questo e molto altro, condensato in un disco d’argento di cui si deve essere pienamente orgogliosi. Veramente esiste qualcuno che avrebbe preferito non fare parte di questa strepitosa avventura?
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