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Smart working, vantaggio per il personale o aumento dello sfruttamento?

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Lo smart working, inizialmente visto come una rivoluzione vantaggiosa per i lavoratori, nasconde in realtà complessi equilibri tra produttività, innovazione e responsabilità datoriali. In un contesto di disuguaglianze crescenti, il dibattito si intensifica su chi ne tragga realmente i maggiori benefici.

Una visione laica dello smart working

Federico Giusti*

La premessa è d’obbligo: lo smart working è una conquista o una gentil concessione alle regole imperanti della produttività?

Non ci sono risposte esaustive ma solo parziali, tutto dipende dall’approccio e dalla lettura sulle nuove modalità lavorative.

Negli anni pandemici lo smart è servito per erogare servizi che in presenza non sarebbero stati possibili ma già qualche anno prima anche la PA avesse iniziato a fare i conti con il lavoro agile nell’ottica di liberare la parte datoriale di molte responsabilità che aveva invece con il lavoro da remoto.

Negli anni abbiamo scoperto che lo smart era anche funzionale ai processi di innovazione tecnologica, faceva risparmiare tempo e denaro ai datori pubblici e privati.

Alcuni esempi si rendono necessari per comprendere quanto scritto: il lavoratore agile non corre rischi di incidenti in itinere (ergo è più presente), le spese relative al microclima sono fortemente abbattute in estate e in inverno (il datore disinveste per la messa a norma degli impianti), per anni non è stato pagato il buono pasto e altre indennità legate alla presenza, possono essere superate anche i tradizionali ostacoli  propri di un profilo professionale e quindi accrescere le mansioni esigibili.

Sul lavoratore agile agisce anche il senso di colpa e di responsabilità verso la parte datoriale ed i colleghi in presenza o verso l’utenza a seconda della tipologia del servizio erogato, da qui la sua reperibilità, per quanto ne dicano i contratti, anche fuori dall’orario canonico attraverso email, chat aziendali e whatsapp.

Un’ultima considerazione è necessaria in relazione a un welfare ormai inadeguato, costruito attorno a una tipologia di famiglia monoreddito, oggi senza due stipendi non si vive e quindi le varie incombenze come l’accudimento di anziani e bambini viene in qualche modo agevolato dal lavoro in smart.

Ma il punto di vista dominante è stato quello di presentare la modalità lavorativa agile come vantaggiosa solo per la forza lavoro mentre invece, come abbiamo visto sopra, è utile soprattutto alla parte datoriale e anche allo Stato che evita di affrontare le carenze del welfare e risparmia tanto sugli stipendi quanto sugli investimenti.

In questi ultimi anni tanto il privato quanto la pubblica amministrazione hanno  ripetutamente modificato le norme regolatrici dello smart, basti pensare che prima del Covid riguardava appena il 3,6% della forza lavoro negli enti pubblici, oggi non solo alcune multinazionali ma anche interi settori della PA ricorrono stabilmente alla modalità agile che a sua volta ha alimentato alcuni malesseri isolando per altro il dipendente dal contesto lavorativo (tra qualche anno scopriremo le malattie provocate dallo smart).

Il lavoratore agile, isolato e senza confronto con i colleghi, diventa per antonomasia un lavoratore non conflittuale abituato com’è a relazionarsi in prevalenza con i diretti superiori.

Ma il lavoro agile se in parte concilia i tempi di vita e di lavoro allo stesso tempo può essere funzionale a una Pa che vive il rapido invecchiamento della propria forza lavoro e lo stesso ragionamento vale anche per il privato, prova ne sia la scomparsa del telelavoro che invece prevede maggiori obblighi datoriali e anche alcune verifiche tipiche della prestazione erogata in ufficio. Esiste poi l’oggettivo ritardo degli Enti pubblici a fissare obiettivi misurabili con lo smart da qui nascono molti pregiudizi di brunettiana memoria.

È poi innegabile la crescente disuguaglianza nel trattamento riservato al personale, di cui parla anche il Cnel, con università, ministeri, giunte e consigli regionali, province e città metropolitane nelle quali le prestazioni agili sono presenti in misura assai maggiori dei Comuni e in particolare quelli di piccola e media grandezza.

Questa evidente disparità di trattamento è comprensibile anche alla luce dei mancati processi innovativi in alcuni settori della PA che, al contrario del privato, non hanno ancora percepito i vantaggi padronali derivanti dalla modalità agile.

Pensiamo che i prossimi contratti della PA, con pochi soldi e perdita tanto del potere di acquisto quanto di contrattazione, vogliano riservare maggiore attenzione al lavoro agile, da qui il ricorso a regolamenti di Enti che magari demanderanno le autorizzazioni ai singoli dirigenti accrescendo le discrezionalità e le disparità di trattamento deviando tuttavia l’attenzione generale dai problemi reali come i salari con potere di acquisto in continua erosione.

Ma il lavoro agile diventa di vitale importanza se pensiamo alla malsana idea di trattenere volontariamente in servizio il personale della PA fino a 70\1 anni di età, in modalità agile potranno lavorare non solo gli anziani ritardando l’uscita dal lavoro e rinviando di anni la erogazione del trattamento di fine servizio (la liquidazione post pensione), ma anche i più giovani, figure professionali particolari evitando magari la fuga verso il privato.

E il sindacato che ruolo intende avere? Alla occorrenza si inventeranno alcune indennità contrattuali gravando per altro sul salario accessorio dell’intero personale. Non pensiamo di errare pensando a un cantiere ancora aperto nel quale le diverse modalità lavorative saranno declinate a uso e consumo della parte datoriale lasciando ai sindacati il classico contentino da inserire in qualche articolo dei contratti senza mai affrontare i nodi salienti che riguardano i salari (bassi), i carichi di lavoro (elevati), le discrezionalità e le disuguaglianze (crescenti) e la carenza di investimenti in materia di formazione del personale e innovazione tecnologica.

* Articolo originale pubblicato su World Politics Blog

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