Dopo quattro anni incendiari Donald Trump farà fagotto e lascerà la Casa Bianca: se sua sponte o se dietro sfratto forzato, con tanto di ufficiale giudiziario convocato dal nuovo inquilino, il tanto deriso e disprezzato “Sleepy” Joe Biden, non è ancora dato saperlo.
La grande vittoria di Sleepy Joe
L’uscita di scena comunque non si preannuncia indolore: nel momento in cui scriviamo la maggior parte dei senatori repubblicani continua a far muro dietro Trump, anche se con sempre meno convinzione. Ma sarà il leader al Senato, Mitch McConnell a disegnare la rotta, se e quando riterrà più interessante trattare con la nuova amministrazione democratica piuttosto che caricarla a testa bassa.
Proviamo intanto a razionalizzare queste elezioni. Soffiamo via un po’ di retorica: non è stata la vittoria delle donne, degli afroamericani, degli ispanici. Donald Trump ha preso pochi voti tra i neri come è sempre successo a qualsiasi candidato repubblicano (forse stavolta ancora un po’ di meno, d’accordo…), anche se alcune analisi ancora provvisorie lo danno in crescita tra l’elettorato afroamericano più giovane; ha raccolto milioni di voti tra l’elettorato femminile (le famose Women for Trump) e ha tenuto, se non addirittura rinforzato, la sua presa tra i latinoamericani. Milioni di donne, ispanici e afroamericani che l’hanno votato senza ritenerlo né razzista né misogino, segno che – come al solito – noi europei la facciamo sempre troppo facile quando parliamo di America.
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La grande sconfitta di Donald Trump
Quattro anni da outsider, da grande nemico della Washington istituzionale, e il suo unico risultato è quello di spalancare le porte della Casa Bianca a un politico che più istituzionale non si può.
Joe Biden, cultore del compromesso, democratico centrista che guarda a destra, con uno stuolo di prominenti repubblicani che l’hanno apertamente o segretamente sostenuto (da George Bush a Chuck Hagel a Colin Powell e Mitt Romney, inclusi i neoconservatori un tempo brutti, sporchi e cattivi).
L’ultimo repubblicano (e presidente) a non venire rieletto fu George Bush nel 1992, ma allora scontò la concorrenza da destra di Ross Perot. Trump aveva invece praterie sconfinate a destra e al centro e nessun concorrente, eppure ha perso, e non di poco, contro un politico sostanzialmente insipido, che non ha la verve di Obama, la simpatia di Clinton o Bush jr, la grinta allegra e al tempo stesso crudele di Reagan, la scorza di Nixon o Lyndon Johnson.
Difficile che gli americani eleggano uno così: è servito Trump per convincerli. Ci voleva Trump a far trionfare con una valanga di più di 78 milioni di voti un candidato sul quale in condizioni normali nessuno avrebbe scommesso nulla.
La grande vittoria di Donald Trump
Nonostante tutto, Trump (nelle elezioni più affollate di sempre) ha preso quasi 72 milioni di voti. Dieci in più del 2016. Diciotto in più di quanti ne prese Reagan, il presidente più amato dagli americani, nel trionfo del 1984, quando conquistò tutti gli Stati tranne Minnesota e Washington DC. Tre in più di Obama nel 2008. E ha perso. Ma ha confermato Florida e Ohio, ha consolidato la sua presa tra la working class, l’elettorato rurale e gli americani non laureati.
Con lui il partito repubblicano ha tenuto il Senato (in attesa delle suppletive di gennaio in Georgia) e recuperato qualche seggio alla Camera. Insomma ha aumentato il consenso di cui godeva.
E Biden?
Onore al merito. Presidente più anziano, campagna elettorale in una teca di vetro per l’effetto Covid-19, e nonostante tutto ha ottenuto un trionfo elettorale. Dodici milioni in più di voti rispetto alla Clinton, più o meno lo stesso incremento elettorale di Trump (elezioni più partecipate della storia, si è già detto). Ma voti chirurgici: si è ripreso Michigan, Wisconsin e Pennsylvania (anche se negli ultimi due con distacco ridottissimo) e porta a casa Stati conservatori come la Georgia e l’Arizona (per 11.000 voti…).
L’Arizona merita una digressione. Guardate la mappa: insieme ai democratici New Mexico e Colorado porta al Texas. In prospettiva è il Texas la grande paura dei repubblicani. Nel 2008, all’epoca dell’uragano Obama, il repubblicano McCain vinse con il 55% lasciando ai democratici il 43%.
Stavolta Trump regge botta con il 52% contro il 46% di Biden: lentamente i repubblicani lasciano percentuali sul terreno a favore dei democratici, con il cambiamento demografico che incalza (più latinos che tendono a votare democratici, più liberal provenienti dall’East Coast che si trasferiscono nelle città texane).
Se i democratici dovessero prima o poi mettere stabilmente le mani sul Texas, a quel punto i giochi sarebbero probabilmente chiusi perché con i suoi 38 grandi elettori sommati ai 55 della California e ai 29 di New York avrebbero un vantaggio di partenza incolmabile in qualsiasi elezione presidenziale. Diventando contendibile, sarebbe il Texas il vero Swing State, altro che Ohio e Florida. Chiusa parentesi.
‘Sleepy’ Joe Biden ha messo le…ali
Tornando a Biden. Stravince senza convincere. Il suo miglior alleato è stato Donald Trump. Dai tempi di Bush jr la corsa elettorale non è più al centro, quanto sulle ali: vince chi compatta il proprio elettorato e fornisce qualche molletta utile agli estremi per turarsi il naso e votare per lui.
Stavolta la sinistra interna ed esterna al partito l’ha fatto, convinta a votare chiunque pur di licenziare Trump.
Forse per la prima volta dal 1992 The Family (i Clinton) non è più al centro della scena. Perfino Obama, nonostante la sua tracimante legittimazione elettorale, fu costretto ad accettare Hillary come Segretario di Stato e successore.
Dopo il disastro del 2016 però i Clinton sono un po’ più marginali, anche se muovono ancora parecchie pedine all’interno del partito. Non stiamo dicendo che non contano più niente, ma che il partito sta entrando nella fase post-Clinton.
Le delusioni preventivabili
Quella di Biden sarà una presidenza difficile. Si dice che il presidente degli Stati Uniti sia l’uomo più potente al mondo. Di sicuro non lo è in America, specie se non ha la maggioranza al Senato e se si trova davanti un muro di sei giudici conservatori su nove alla Corte Suprema, la quale tra l’altro a giugno deciderà sull’Obamacare: dovesse affossarlo sarebbe il caos sanitario.
La sua sarà una presidenza di inevitabile compromesso, del resto il compromesso è nelle corde dell’architettura istituzionale americana, pensata per tagliare le gambe a qualsiasi egemonia presidenziale.
Deluderà la sinistra del partito, un po’ perché non è un uomo di sinistra (moderatamente progressista in campo sociale, moderatamente conservatore nel campo dei diritti civili: cos’altro potrebbe essere un americano irlandese?), un po’ perché non potrà fare altrimenti.
Passata la foga postelettorale del momento, verosimilmente avrà a che fare con repubblicani almeno in parte disposti a trattare, anche per scrollarsi di dosso l’ombra di Trump che in questi anni ha travolto un partito che si è scoperto facilmente scalabile dal primo outsider che passa per la strada.
Good vibrations
I democratici possono interpretare con moderato ottimismo le tendenze elettorali. Del Texas si è già detto. Si sono ripresi gli Stati della Rustle Belt e iniziano a penetrare a sud prendendolo da est (Georgia) e ovest (Arizona). Bisogna capire però se è stato un caso o è l’inizio di una tendenza stabile. A prima vista l’incredibile massa di voti raccolti da Biden è arrivata in maniera piuttosto casuale, resa possibile dal forte sentimento antitrumpiano.
Diversa fu la vittoria di Obama nel 2008, con una coalizione pianificata di diversi segmenti elettorali (elettorato giovane, afroamericani, operai, donne), una coalizione di minoranze trasformata in maggioranza e che sarebbe potuta diventare egemonica se Hillary Clinton non l’avesse dispersa. Il voto stavolta è stato più spontaneo, è arrivato di pancia, un “qualsiasi cosa va bene tranne Trump”, tra le pieghe e le piaghe di un paese che conta 250.000 morti di Covid e vive nella paura di nuovi disordini razziali.
Il Senato ancora in sospeso, la Camera dove i democratici conservano un vantaggio più tenue di prima (a oggi hanno perso 5 seggi, i repubblicani ne hanno guadagnati 6), il Montana che elegge un governatore repubblicano al posto di uno democratico: tutti piccoli indizi che il partito democratico vince senza sfondare, e il partito repubblicano perde ma tiene le posizioni.
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