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Il mondo sta cambiando: la teoria dei cicli

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Produrre modelli previsionali per interpretare il mondo e con questi procedere a districare il bandolo della matassa. Ma la nostra classe dirigente è in crisi, perché non sa più come tamponare la ferita di un corpo morente.

La teoria dei cicli

Ci sono modelli matematici per cicli socio-demografici, tecnologici, economici (su debito, diseguaglianza, produttività), sociologici (tasso di violenza) e via discorrendo.

Molti di questi modelli in Occidente sono criticati perché ritenuti poco scientifici.

La realtà è complessa/caotica per cui ogni schema con cui noi proviamo ad interpretarla non può che essere parziale e vero fino a quando non viene falsificato (vero, fino a prova contraria).

In Occidente (Europa, Nord America, Australia e Nuova Zelanda) vige una netta distinzione tra ciò che è scientifico e ciò non che non lo è. Un metodo viene valutato esclusivamente per la sua corrispondenza alla verità scientifica e non sui risultati che fornisce.

Questo approccio colpisce negativamente le teorie dei cicli.

Dettaglio curioso è che presso i BRICS, le teorie dei cicli hanno un discreto seguito, non solo in ambito accademico, ma anche politico. La classe dirigente programma il futuro anche con l’aiuto di modelli previsionali.

Il dettaglio ci fornisce alcune informazioni:

1- La classe dirigente studia o si circonda di persone che studiano.
2- La classe dirigente ha una visione del mondo coerente (non necessariamente corretta).
3- La classe dirigente non segue un’ideologia scientifica (o scientista), segue il metodo che ritiene più funzionale (per citare Deng Xiaoping: “Non importa il colore del gatto, importa che prenda il topo”).

Di tutti questi punti, la classe dirigente occidentale (almeno auspicabilmente) ne rispetta uno solo: studia e si circonda di gente che studia, per il resto siamo fuori target.

Questo crea enormi problemi nella gestione di una comunità: potete essere i rappresentati di scala del vostro palazzo, ma dovete avere un piano su quando chiamare le pulizie, quando vanno fatte, avere degli argomenti sul perché si preferisce il giorno o l’ora Y, decidere come gestire fatti comunitari (fare o no presepe e albero di Natale), come mandare comunicazioni, come gestire quel vicino turbolento…

Una visione del mondo coerente serve, perché legittima la propria autorità al resto della comunità, che decide di fidarsi proprio di Caio, perché – nel bene o nel male – ha degli argomenti (oggi questo viene chiamato “narrativa”, ma a dispetto del fatto che se ne parla tanto, ben pochi ne sono forniti).

Qualcuno mi dirà: il neoliberismo, l’atlantismo, l’adesione all’UE sono i nostri assi portanti. Falso. Trump è un rappresentante dell’ordine occidentale (per quanto esterno ad alcuni giochi), ma non è un fan dell’atlantismo; il Regno Unito è il vice in comando, ma ha eseguito la Brexit (forse proprio in virtù della direzione che vogliono dare – più Impero con India, Sud Africa, Australia, Canada e Nuova Zelanda e meno Europa con Spagna, Italia, Grecia, Germania: noi siamo il peso); il neoliberismo rimane la strategia economica, ma quando c’è stata la crisi sono intervenuti a piene mani a salvare banche e industria automobilistica (inoltre, neoliberismo è espressione usata dagli avversari).

Rimane la questione degli studiosi. Innegabilmente vedendo i CV di Draghi, Letta and co, non possiamo non pensare che abbiano studiato, ma l’Occidente è vittima della sua stessa ideologia.

Studiare economia in un’università inglese oggi ha la stessa attinenza alla realtà dello studiare teologia nel 1300: certo, corrisponde al reale di questa comunità, è la realtà condivisa, ma al di fuori di questo non è reale.

La teologia non ha alcun valore se io non credo dio, i modelli economici o delle scienze politiche occidentali non hanno alcun valore già al di là del Bosforo e del Dnepr.

La nostra classe dirigente è in crisi, perché non sa più come tamponare la ferita di un corpo morente.

Mentre la classe dirigente degli USA persegue una politca imperiale e imperialista e quindi pensa al proprio tornaconto e a come gestire una società sempre più riottosa; la classe dirigente europea si condanna a morte da sola.

I cicli non saranno scientifici in senso stretto, ma in parte prevedono questo andamento e prevedono un punto di rottura. Bisogna capire se il punto di rottura sarà demografico (invecchiamento e crisi economica), razziale (aumento della diversità etnica e conflittualità tra gruppi), economico (crisi inflattiva), politico (rivolte), ma che stiamo marciando in quella direzione è evidente.

Continuo a ripetere che contro un andamento globale si può far poco. Non possiamo pensare di avere la miglior classe dirigente del mondo in un’epoca di imbecilli e anche se avessimo Machiavelli probabilmente si potrebbe fare poco.

Non ci rimane che studiare i modelli previsionali, la storia, il presente e cercare di prendere le scelte più giuste dato il periodo che stiamo passando, per il futuro abbiamo poche alternative:
1- Un’agonia demografica economica lunga (che in sostanza è quello che stiamo vivendo da dieci anni);
2- Una guerra tra potenze che ci veda come campo di battaglia (con possibile ripresa simil anni ’50 dopo);
3- Proseguire verso l’integrazione di altri popoli nel nostro territorio per creare qualcosa di nuovo e ringiovanire idee e persone;
4- Una nuova visione del mondo (religioni, idee politiche).
Queste sono le prospettive possibili.

 

Personalmente credo che le ultime due mescolate siano le preferibili, ma richiedono pragmatismo e volontà politica.

Un modello di popolamento sud americano penso sia il migliore per la nostra storia: lingua, religione occidentali, ma con enormi apporti dal resto del mondo (in particolare Africa e nativi americani) -> Questo implica una gestione politica dei flussi per favorire questa soluzione (ma chi se la assume la responsabilità politica?)

A livello politico rimango convinto di una sorta di socialismo ecologico che riduca i consumi e de-economicizzi l’immaginario.

Oggi c’è qualcuno con queste caratteristiche in Italia? In Europa?

Queste proposte sono per un cambiamento (la fine di un ciclo) controllato, è una soluzione possibile non LA soluzione. Quello che propone la nostra classe dirigente è continuare il declino lentamente, in attesa che arrivi la catastrofe e poi si salvi chi può (loro).

 

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Gabriele Germani
Gabriele Germani
Roma, 1986. Laureato in Storia contemporanea e Psicologia, con Master in Geopolitica. Lavora nell’ambito pedagogico-educativo. Si occupa da anni dei rapporti tra il Sud e il Nord del mondo, con le lenti del neo-marxismo, della teoria della dipendenza, del sistema-mondo e dell’Eurasia. Con questa prospettiva ha pubblicato negli anni, alcuni libri e articoli di storia e antropologia, in particolare sull’America Latina. Riferimenti bibliografici: Uruguay e emigrazione italiana: sogni, speranze e rivoluzioni di Gabriele Germani (Autore), Anthology Digital Publishing, 2022. Ha inoltre in pubblicazione con Kulturjam Edizioni: una raccolta di riflessioni su BRICS e mondo multipolare, con introduzione di Gianfranco La Grassa e con Mario Pascale Editore un testo sulla politica estera italiana durante la II Repubblica. Cura un micro-blog sul suo profilo Facebook (a nome “Gabriele Germani”) e un Canale Telegram sempre a nome “Gabriele Germani” (t.me/gabgerma). Dirige inoltre il Podcast “La grande imboscata” su attualità, geopolitica e cultura su varie piattaforme.

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