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La Siria in soli tre giorni dalla riconquistata ‘libertà’, ha assistito a una drammatica escalation di violenze che sembrano delineare un quadro di totale distruzione per il Paese e una complicità inquietante della comunità internazionale.
La cronaca ci racconta di esecuzioni sommarie nelle strade e negli ospedali, da parte dei ‘jihadisti moderati’, i ribelli di Al Julani, il nuovo Fidel Castro (secondo Rapubblica and co).
Contemporaneamente Israele ha annesso un territorio siriano di dimensioni doppie rispetto alla Striscia di Gaza, dichiarando che le alture del Golan, occupate nel 1981, saranno parte integrante del proprio territorio “per sempre”.
La nuova libertà in Siria e l’avanzata israeliana oltre il Golan
Israele ha esteso la sua “zona difensiva” ben oltre la linea di demarcazione fissata dalle Nazioni Unite sulle alture del Golan, spingendosi fino a 25 chilometri dalla capitale siriana, Damasco. Questa operazione, giustificata come necessaria per proteggere il Paese ‘dal terrorismo’, si è concretizzata in una serie di 310 raid aerei condotti in meno di 48 ore.
Questi attacchi hanno devastato basi militari, aeroporti e centri di ricerca, colpendo duramente anche la popolazione civile, che vive nella paura costante.
Tra gli obiettivi distrutti spiccano la flotta siriana nella baia di Minet el Beida e nel porto di Latakia, le difese aeree e i velivoli militari come caccia Mig e Sukhoi. La distruzione dell’aviazione siriana rappresenta un colpo letale alla capacità del Paese di difendersi, lasciando le sue frontiere esposte e vulnerabili a future incursioni.
Al Julani e il silenzio internazionale
Con la caduta di Bashar al Assad, fuggito in Russia, la leadership della Siria è passata ad Abu Mohammad al Julani, ex capo di Hay’at Tahrir al Sham (HTS) e figura controversa della scena jihadista. Al Julani, che l’amministrazione Biden sta valutando di rimuovere dalla lista dei terroristi, ha scelto di mantenere il silenzio sugli attacchi israeliani, alimentando sospetti sulla natura del suo ruolo e sulle sue alleanze.
Nel frattempo, episodi di giustizia sommaria nelle strade di Idlib e Hama, con esecuzioni pubbliche di ex ufficiali del regime di Assad, evidenziano una transizione politica caotica e violenta.
Un pretesto per l’espansione territoriale israeliana
L’aggressione israeliana in Siria non si limita alla distruzione delle sue difese militari. Le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, che ha ordinato la creazione di una «zona difensiva sterile» nella Siria meridionale, sembrano parte di una strategia più ampia di espansione territoriale.
Con il probabile ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, che aveva già riconosciuto la sovranità israeliana sulle alture del Golan nel 1967, non si può escludere che Israele ambisca a consolidare il controllo su ulteriori porzioni di territorio siriano.
Ma mentre Israele celebra la caduta di un alleato di Teheran, migliaia di civili siriani subiscono le conseguenze devastanti di questi raid. Le testimonianze provenienti dai sobborghi di Damasco descrivono scene apocalittiche: nuvole di fumo avvolgono interi quartieri, mentre la popolazione cerca disperatamente rifugio.
Nel frattempo, l’Occidente applaude la fine di Assad senza preoccuparsi del prezzo pagato dal popolo siriano.
Organizzazioni indipendenti come Syrians for Truth and Justice segnalano un’ondata di proteste contro Al Julani e la sua leadership repressiva, che ha risposto con arresti arbitrari e violenze. Tuttavia, queste voci di dissenso non trovano eco nella narrativa dominante, che sembra ignorare volutamente le atrocità in corso.
La distruzione della Siria e l’aggressione israeliana rappresentano una tragedia umanitaria e politica di proporzioni epocali. Ma qui da noi abbiamo ancora gli analfoliberali, ultrà della guerra da poltrona, che vedono tutto come un risiko in cui va bene tutto pur di vincere una partita contro nemici più o meno immaginari.
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