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John Elkann in Parlamento annuncia investimenti in Italia. Tradotto: la Fiat vuole ancora soldi pubblici. Il rapporto tra lo Stato e la famiglia Agnelli-Elkann è ormai una commedia ripetitiva, in cui il capitale detta le regole e la politica esegue. Ma il vero problema è a monte.
Elkann, la Fiat e l’eterna elemosina di Stato
John Elkann, con la solennità di chi ci sta facendo un favore, si è presentato in Parlamento dichiarando che la Fiat è cresciuta con l’Italia e continuerà a investirci. Tradotto dal “managerese”: vogliamo ancora i vostri soldi.
Chi si sorprende di questo teatrino probabilmente ha vissuto su Marte negli ultimi decenni. La Fiat è maestra nell’arte del capitalismo assistito: perennemente in crisi quando si tratta di pagare gli stipendi, ma sempre florida quando c’è da incassare finanziamenti pubblici.
E guai a ricordare che i soldi dello Stato non sono un dono divino: si rischia l’accusa di populismo, l’anatema peggiore nell’epoca in cui la politica ha rinunciato a esistere.
Perché, diciamolo chiaramente, il problema non è tanto Elkann, che fa il suo mestiere di capitalista con la ciotola in mano, ma la politica italiana, che ha ormai accettato un dogma suicida: il grande capitale è sacro e la politica deve solo creargli un ambiente favorevole, senza pretendere nulla in cambio.
In pratica, la nostra economia è diventata una di quelle relazioni tossiche in cui uno dei due dà tutto e l’altro prende senza manco dire grazie.
Il principio per cui l’impresa privata dovrebbe servire anche l’interesse pubblico è stato silenziosamente sepolto. Lo Stato, dicono, non deve intervenire nell’economia… a meno che non si tratti di finanziare industrie belliche, ovviamente. Lì i fondi magicamente si trovano sempre.
Il potere economico e quello politico ormai parlano la stessa lingua, quella del profitto senza vincoli e del capitale per il capitale. E noi? Noi siamo quelli che pagano il conto. Sempre.
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