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La Cina prende il largo: il Pacifico non è più americano

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Mentre gli USA si dividono su più fronti, la Cina espande la sua potenza navale oltre il Pacifico, puntando alla supremazia marittima. Lo scontro globale tra imperi si gioca sull’acqua: Taiwan è solo l’inizio. Xi Jinping prepara il sorpasso, nave dopo nave.

Lo scacchiere si allarga: gli Stati Uniti combattono, la Cina avanza

Nelle profondità del XXI secolo, la geopolitica non si gioca più soltanto tra trincee e trattati. Si misura sull’acqua, sulle rotte commerciali, sugli stretti e sugli oceani. Lo ha ribadito, con toni da stratega imperiale, lo stesso presidente cinese Xi Jinping, affermando che «un Paese prospera se controlla i mari e decade se li abbandona». Un monito rivolto al Partito comunista ma rivolto anche all’esterno, che fotografa la nuova postura globale di Pechino.

Mentre gli Stati Uniti moltiplicano i teatri di crisi – Ucraina, Medio Oriente, Golfo Persico – la Cina costruisce pazientemente la sua supremazia marittima. E lo fa non con colpi di teatro, ma attraverso una strategia coerente, graduale e sempre meno prevedibile.

Nel Pacifico, la presenza cinese ha superato le soglie convenzionali: navi da guerra, gruppi di portaerei, esercitazioni a ridosso delle linee rosse storiche americane. Il messaggio è chiaro: la Repubblica Popolare non vuole più essere contenuta. E le “tre catene” insulari costruite dagli USA nel dopoguerra – dal Giappone a Guam, fino alle Hawaii – iniziano a vacillare.

Il Pacifico come arena del futuro

Negli ultimi mesi, Washington si è trovata a rincorrere eventi. Una delle sue più potenti portaerei, la USS Nimitz, è stata spostata in fretta e furia dallo scacchiere indo-pacifico verso le acque bollenti dello Stretto di Hormuz. È il segnale di una coperta troppo corta per un impero globale che, nell’illusione di potersi dividere su più fronti, rischia di perdere centralità proprio dove si gioca il futuro: il Pacifico. Taiwan, che da decenni si affida alla protezione americana, osserva con crescente preoccupazione questi spostamenti. Il messaggio implicito è che gli Stati Uniti, oberati da conflitti prolungati, potrebbero non avere la prontezza per difendere l’isola in caso di una crisi improvvisa.

La Cina, dal canto suo, ha fatto il suo ingresso simbolico nella dimensione oceanica. Non si tratta più soltanto di pattugliamenti costieri o della difesa del Mar Cinese Meridionale: Pechino ha oltrepassato la cosiddetta “seconda catena”, che comprende basi nevralgiche come Guam e Palau. Lo ha fatto con gruppi navali strutturati, suscitando allarme nei comandi americani tra il Giappone e le Hawaii. Entro il 2035, l’obiettivo dichiarato è quello di disporre di una flotta oceanica pienamente operativa. E in parte, già ci siamo.

Uno scontro tra visioni strategiche

L’approccio cinese si fonda su un’idea precisa: proteggere la sicurezza energetica e commerciale del Paese in un mondo dove l’85% del petrolio cinese transita per lo Stretto di Malacca, vulnerabile a eventuali blocchi. La presenza militare oltre quelle acque non è solo un fatto simbolico, ma una garanzia di continuità economica. In questo senso, la proiezione navale cinese si configura come una risposta – aggressiva ma razionale – al contenimento americano.

Gli Stati Uniti, per contrastare questa espansione, dovranno redistribuire forze dal Mediterraneo, dall’Atlantico e da altri quadranti. Ma basterà? Le previsioni non sono rosee. La macchina militare cinese è più efficiente, più coerente con i suoi obiettivi, e sta crescendo in una zona del mondo dove la pressione demografica, commerciale e tecnologica si fa sentire ogni giorno di più.

In definitiva, il nodo Taiwan è solo una parte del problema. Sullo sfondo si intravede uno scontro sistemico: tra una superpotenza impegnata a mantenere lo status quo e un’altra determinata a ridefinirlo. Non è solo una contesa per il Pacifico, ma per il futuro stesso dell’ordine mondiale. E in questo braccio di ferro, l’acqua sarà il nuovo terreno solido del potere.

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