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Dalla precarietà diffusa alla caduta dei salari reali, il nuovo capitalismo di comando si regge sull’obbedienza forzata e sull’indebolimento sistemico della forza lavoro. L’Italia, caso emblematico di una crisi globale.
Il ritorno del comando: come il capitalismo ha restaurato il suo dominio sul lavoro
All’inizio del ventunesimo secolo, la forma del capitalismo contemporaneo si rivela con chiarezza: non si tratta di un’evoluzione, ma di una restaurazione. La struttura produttiva globale ha abbandonato ogni pretesa partecipativa, tornando a un sistema in cui l’obbedienza è la virtù principale richiesta a chi lavora. Il risultato è un “capitalismo di puro comando“, che ha svuotato la democrazia economica e ridotto il lavoro a una funzione meramente esecutiva.
Proprietà e comando coincidono. Le lavoratrici e i lavoratori, siano essi operai, impiegati, tecnici, ingegneri o autonomi fittizi, non sono più soggetti attivi, ma ingranaggi docili.
Questo modello si estende senza distinzioni tra settore pubblico e privato: perfino il mondo dell’istruzione, un tempo presidio di autonomia e confronto, è oggi attraversato da logiche autoritarie che impongono silenzio e sudditanza.
Italia, laboratorio della subordinazione
In questo contesto globale, l’Italia rappresenta un caso emblematico, quasi un laboratorio avanzato della regressione neoliberale. Il nostro Paese detiene un record negativo nei principali indicatori internazionali di tutela del lavoro. Secondo l’OCSE, è tra i primi al mondo per riduzione delle protezioni normative e sindacali. Una posizione che si riflette in ogni angolo del mercato del lavoro: la precarietà non è più un’anomalia, ma la norma.
Dal punto di vista accademico e mediatico, questa “liberalizzazione” viene spesso presentata come condizione necessaria per la crescita. I manuali di economia ancora insegnano che il dominio del capitalista dovrebbe stimolare la produttività e, in ultima analisi, i salari. Ma l’evidenza empirica racconta tutt’altra storia.
Dall’inizio del secolo, la produttività per ora lavorata in Italia è aumentata di appena il 2,7%, mentre il potere d’acquisto dei salari è sceso del 5,4%. Un doppio fallimento: né più efficienza, né maggiore benessere.
A questo si aggiunge un dato ancora più inquietante: quello delle morti sul lavoro. Se negli anni del conflitto sindacale si assisteva a una loro sensibile diminuzione, oggi la curva tende a stabilizzarsi, segno che il peggioramento delle condizioni lavorative coinvolge anche la sicurezza elementare. Il messaggio implicito è chiaro: la vita vale meno della libertà di comando dell’impresa.
Un sistema che disincentiva la qualità
La dinamica in corso produce un paradosso strutturale. Più il lavoro è debole e silenziato, meno il capitale è costretto a innovare. La restaurazione del comando non genera efficienza, ma stagnazione.
Con lavoratori schiacciati e sindacati svuotati, i datori di lavoro possono continuare ad accumulare profitti comprimendo i salari, senza alcun bisogno di investire in formazione, ricerca o qualità produttiva.
Questo fenomeno non è solo italiano. Uno studio di Fontanari e Palumbo, pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking, dimostra che anche negli Stati Uniti la debolezza della forza lavoro alimenta regimi di accumulazione a bassa produttività. Si consolida così un capitalismo “straccione”, che prospera non grazie all’efficienza ma grazie alla rendita, alla compressione del lavoro e alla fragilità dei diritti.
Un tempo, queste contraddizioni venivano denunciate e spiegate con chiarezza da forze politiche consapevoli, capaci di leggere la realtà sociale attraverso categorie economiche e storiche. Erano i comunisti a ricordare ai liberali che la forza del capitale dipende dalla subordinazione altrui, che ogni presunta neutralità del mercato nasconde un conflitto di potere. Oggi, con la scomparsa di quelle culture politiche, lo spazio pubblico è occupato da ideologie diverse ma tutte accomunate dalla stessa devozione cieca al capitale.
La libertà d’impresa è trattata come dogma, mentre le conseguenze sociali e materiali del suo dominio sono occultate o giustificate come inevitabili. Si parla di “modernizzazione”, di “flessibilità”, di “resilienza”. In realtà, siamo davanti a un processo sistemico di impoverimento e di disgregazione sociale.
L’eterogenesi dei fini
Il punto più drammatico di questa parabola è che la restaurazione del comando capitalistico ha fallito anche sul piano che dovrebbe esserle più congeniale: quello dell’efficienza.
Il capitale, lasciato libero di comandare senza freni, si trasforma in parassita. Non migliora la produttività, non innova, non garantisce stabilità. Anzi: produce stagnazione, sfiducia, fuga di cervelli, dequalificazione diffusa.
È l’eterogenesi dei fini: ciò che era presentato come premessa per la crescita si rivela causa di decadenza. La libertà assoluta del capitale, lungi dal generare progresso, finisce per compromettere lo stesso sviluppo economico. E mentre le disuguaglianze aumentano, la classe dirigente festeggia l’apparente successo del proprio dominio, ignorando che sta minando le basi stesse della società.
Riconoscere questa realtà, oggi, è il primo passo per ricostruire un discorso economico e politico fondato non sull’ideologia della sottomissione, ma sulla giustizia, l’efficienza reale e la dignità del lavoro. Perché un sistema che umilia chi lavora non solo è ingiusto: è anche, e soprattutto, destinato a fallire.
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