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L’Italia canuta tra i grandi vecchi del potere e i giovani delle risse notturne

L’Italia tra i soliti grandi vecchi del potere e giovani invecchiati precocemente, resta un  paese che soffre di un feroce complesso d’inferiorità in ogni strato, e che trova nello scarto reazionario, familista, a destra, nel populismo, il trucco o il punto di fuga per non dire verità necessarie, ingrate, dolorose.

I grandi vecchi del potere

Guardateli tutti in fila, uno dietro l’altro, ai grandi Meeting, alle riunioni internazionali, nei consigli d’amministrazione: sono gli uomini che contano in questo paese, quelli che -indifferentemente dai danni che compiono- e sono tanti, ripetuti, identici, passano con disinvoltura da una poltrona all’altra, come se la memoria non gravasse sulle loro azioni né sul giudizio su di esse.

Guardateli bene. Sono tutti uomini di una certa età con una discreta pancia, la favella inarrestabile, di buona famiglia, cattolici o moderatamente laici, spesso hanno avuto anche a che fare con la magistratura e posseggono materialmente se non tutto, molto.

Tra loro non ci sono donne, non ci sono ragazzi, non ci sono extracomunitari naturalizzati, non ci sono disabili, non ci sono omosessuali, non ci sono transgender. Rappresentano si e no il 5% del paese. Sono rappresentativi solo di loro stessi.

Sono i nostri personalissimi “Wasp”. Ma continuano a fare il bello ed il cattivo tempo. Nonostante tutto, continuano ad incutere e ricevere il “rispetto” che si deve ad un padrino. La gente sbuffa ma non si avverte nell’aria nessun “piazzale Loreto rituale”.

È più un insofferenza alla Masaniello; c’è semmai la vecchia ossessione piccolo-borghese della sostituzione. Non si butta nessuno giù per la propria liberazione ma per prendere il suo posto. Forse inconsciamente desideriamo tutti avere una bella pancia tonda e sudata.

 

I giovani delle risse notturne

Sono le vittime principali di questo tritacarne eppure è difficile per noi novecenteschi avere empatia con loro. Sono condannati per le colpe dei padri, scriveva Pasolini trent’anni fa.

Un profetico articolo che l’intellettuale scrisse per il Corriere della Sera, e in seguito racchiuso nelle “Lettere Luterane”. Si intitolava “I giovani infelici“, termine col quale Pasolini accomunava sia i figli della borghesia sia, soprattutto, i poveri figli del proletariato che non era più tale, i figli “che non sarebbero mai nati” in un’epoca senza assistenza medica ( quelli “che non dovevano nascere” e si porteranno sempre questa oscura consapevolezza dentro), non più contadini e non più operai, ora tutti assemblati in orde e bande anonime, senza sorriso, tenuti insieme solo dal consumismo.

Il consumismo era riuscito a fare quello che non era mai avvenuto sociologicamente nel passato del mondo occidentale: aveva reso uguali, piattamente uguali i figli della borghesia e i figli del popolo e aveva levato ad entrambi la possibilità della felicità, che non può che sperimentarsi attraverso l’esercizio della cultura (“….e’ il possesso culturale del mondo che da’ la felicità…” scriveva Pasolini).

Questi giovani infelici sono intorno a noi e sono la maggior parte. Tra i giovani figurano anche quelli finiti nel boom delle risse programmate via social.

Gli episodi di risse tra giovani sono in costante aumento. Per non parlare dei racconti degli orrori della notte di Capodanno con le violenze di gruppo e gli stupri a Milano e a Roma.

Il fenomeno – che non è certo una novità – nell’ultimo anno è cresciuto e si diffonde ora anche nelle province, da nord a sud. E riguarda soprattutto i giovani delle fasce più fragili della popolazione, in cui c’è un maggiore disagio economico e sociale. Ma non solo.

Il più delle volte i ragazzini si danno appuntamento attraverso i social e il motivo scatenante può essere uno qualsiasi. Molti si picchiano, moltissimi stanno a guardare. E i video finiscono in tempo reale su Instagram.

 

Ragazzi anche in questo caso simili in tutto e per tutto con quelli che s’incontrano tutti i giorni per strada, ma portatori di un aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l’affermazione della propria identità con l’accanimento fisico sul prossimo, meglio se più debole, se indifeso.

Galimberti in un bell’articolo di qualche anno fa, parlava di ragazzi “senza cuore”: non è un’espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente il simile non attacca il simile.

Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, le salvaguarda. Se ancora qualcuno avesse dei dubbi, dovrà meditare a lungo sul come la nostra cultura sia così degradata da infrangere anche tra ragazzi il ribrezzo naturale dell’accanirsi sul più debole.

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Alexandro Sabetti
Alexandro Sabetti
Vice direttore di Kulturjam.it -> Ha scritto testi teatrali e collaborato con la RAI e diverse testate giornalistiche tra le quali Limes. Ha pubblicato "Il Soffione Boracifero" (2010), "Sofisticate Banalità" (Tempesta Editore, 2012), "Le Malebolge" (Tempesta Editore, 2014), "Cartoline da Salò" (RockShock Edizioni)

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