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Le elezioni USA non sono altro che la raffigurazione di un inganno ridondante in grado di rinnovare, a cadenza quadriennale, quella retorica ampollosa tipica di uno storytelling: “comunque la si pensi l’America dimostra sempre di essere la più grande democrazia del mondo”.
Elezioni USA e declino
La scena è pronta per l’allestimento dello spettacolo fantasmagorico, dell’esposizione universale che simula la solidità oligarchica dei tempi che furono.
Sì perché le elezioni statunitensi non sono altro che la raffigurazione di un inganno ridondante in grado di rinnovare, a cadenza quadriennale, quella retorica ampollosa ma al contempo spiccia che ossessiona l’udito con l’esclamazione tipica di uno storytelling: “comunque la si pensi l’America dimostra sempre di essere la più grande democrazia del mondo”.
Che questa affermazione così sentenziosa rappresenti ormai un’affranta litania vuota è elemento palpabile nella sensibilità comune, ma offre ancora quel rassicurante profumo pubblicitario che eleva l’osceno in verosimiglianza.
A questi immaginari contemplativi, dal cinema alla libertà delle sperimentazioni artistiche e libertarie, dal giornalismo d’assalto alla patria delle possibilità, non credono più neanche gli americani. Trattasi di merce scaduta che si aggira spettralmente nella funzione di simulacro.
Per tanto tempo riuscirono a nascondere la verità di un sistema oligarchico e feroce tra le righe di un kolossal. Oggi la realtà è nuda ma esplosiva. Solo i nostri chierici, pronti per le maratone televisive, pensano ancora di perpetuare l’espediente con credibilità.
Un sortilegio che vorrebbe un pubblico accecato dall’oblio di un mondo nuovo che ha generato schiavitù, genocidi, guerre, povertà, disperazione sociale, segregazione razziale, alienazione tossica, implacabile violenza, indifferenza e teorie tardo ottocentesche fonte d’ispirazione per i nazismi di ogni tempo.
Gli americani affrontano il voto consapevoli, a differenza nostra, che la bolla sta scoppiando. Sono già armi in pugno per regolare i conti. A loro poco importa di Ucraina e Palestina. Il nemico esterno non fa più da collante per l’espansione capillare dell’imperialismo.
Alla storica dicotomia yankee e dixieland, due differenti versioni del comune cinismo individualista, se ne è aggiunta un’altra sovrapponibile e complementare ma ancor più dirimente.
I primi respiri di questa frattura si videro nel lontano 1972 quando l’emancipato candidato democratico McGovern si fece megafono delle aspirazioni contro-culturali della nuova sinistra libertaria così affascinata dalla legge del desiderio personale da far disertare l’intera classe operaia. Vinse Nixon a mani basse.
Pian piano quella cultura del sogno, della scintilla creativa che separa civiltà e incuria ha rappresentato la molla ideologica della nuova borghesia, capace così di riprodurre indefinitamente, con nuovi canoni estetici, i propri privilegi.
La dottrina neoliberale si è talmente infatuata delle prerogative contro-culturali da proporre al mondo un’esegesi dell’agonismo competitivo tutto incentrato sulla mitologia del merito personale. Saper affrontare le sfide, questa l’implorazione della globalizzazione finanziaria.
Gli sconfitti, della vecchia classe e del nuovo sottoproletariato, disintegrati dal mito della concorrenza, oggi godono della perdita assoluta di senso vitale e di stima sociale.
Questo il sotterfugio della destra contemporanea e dei suoi boriosi rappresentanti. Sostengono, rassicurati dai propri miliardi di dollari, di essere al loro livello. Non economico ma esistenziale.
Questa l’inconsapevolezza dei laureati progressisti e furiosamente ottimisti. Pensano che sia un problema di ignoranza, si distanziano sempre più dal reale per volare in un immaginario simbolico di autocelebrazione.
Questa la guerra civile in corso, non più osservabile sottotraccia, ma pronta a tuonare nella patria del fascismo liberale.
Ps: Incidentalmente ha vinto Donald Trump. Lo sapevano tutti tranne i sondaggisti di Repubblica.
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