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L’Europa immaginata e propagandata per decenni è ormai un miraggio: al suo posto un’UE che spinge per la corsa agli armamenti, sacrificando sanità, istruzione e welfare. La retorica della sicurezza giustifica spese miliardarie, ma a quale prezzo? È tempo di chiedersi se questo progetto abbia ancora senso.
Dal sogno dell’Europa unita all’incubo della militarizzazione
L’Europa sognata e raccontata per decenni, quella federazione di popoli uniti da ideali di pace, solidarietà e progresso, è un’utopia che non ha mai preso forma. O forse sì, per un breve istante, prima di essere soffocata da una realtà ben diversa: un’Unione Europea che oggi somiglia più a un consorzio di affaristi che a un progetto basato su valori condivisi.
E ora, come se non bastasse, una figura che potrebbe essere la reincarnazione della signorina Rottenmeier di Heidi – rigida, austera, implacabile – ci dice che dobbiamo armarci. Contro chi? La Russia. Ma davvero?
I numeri parlano chiaro, e non c’è propaganda che tenga. La Russia ha 143 milioni di abitanti, l’Unione Europea 450 milioni: tre volte tanto. Senza contare che il PIL dell’UE è di circa 18 trilioni di euro, mentre quello russo si aggira intorno a 1,8 trilioni, dieci volte meno.
Come potrebbe, realisticamente, Mosca invaderci? Anche nella più fantasiosa delle ipotesi, se mai riuscisse a occupare militarmente qualche territorio, al massimo ci metterebbe una bandiera e qualche posto di blocco. Non ha né la forza demografica né quella economica per controllare un continente come il nostro.
È un po’ come immaginare che il Messico, con i suoi 130 milioni di abitanti e un PIL di 1,5 trilioni di dollari, invada gli Stati Uniti – 330 milioni di persone e un PIL di 25 trilioni – e ne esca vincitore. Ridicolo, no? Eppure, questa narrazione viene pompata senza sosta per giustificare una corsa agli armamenti che rischia di cambiare il volto dell’Europa. Non in meglio.
La corsa agli armamenti: a chi conviene davvero?
Parliamo di soldi, perché è qui che la faccenda si fa concreta. La Commissione Europea e alcuni Stati membri stanno spingendo per aumentare la spesa militare, con l’obiettivo di portare il budget della difesa a livelli mai visti dagli anni della Guerra Fredda.
Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), nel 2023 gli Stati UE hanno già speso complessivamente 240 miliardi di euro in difesa, e ora si parla di raddoppiare o triplicare questa cifra nei prossimi anni. Per fare un esempio pratico, l’Italia, che già destina circa 26 miliardi all’anno al settore militare, potrebbe trovarsi a sborsare 50 o 60 miliardi, se la linea della militarizzazione passa.
Da dove verranno questi soldi? Non certo dal nulla. Verranno tagliati dalla sanità, già al collasso dopo anni di austerity; dall’istruzione, dove le scuole cadono a pezzi; dal welfare, che dovrebbe sostenere una popolazione sempre più anziana e precaria. Ogni euro speso in un carro armato, oppure in un F-35 (che cadono come mosche), è un euro tolto a un ospedale, a un asilo, a una pensione dignitosa.
E non è solo una questione di numeri. È una scelta politica che avrà conseguenze sociali devastanti. Più risorse drenate per le armi significano più disuguaglianze, più rabbia, più terreno fertile per gli estremismi di destra. Lo abbiamo già visto: la crisi economica del 2008 ha fatto esplodere i movimenti populisti in tutto il continente. Figuriamoci cosa succederà quando i cittadini si troveranno con servizi pubblici ridotti all’osso e un’élite che brinda alla “sicurezza” mentre conta i profitti dell’industria bellica.
L’UE non è una federazione di popoli, ma un agglomerato di Stati che litigano su tutto, dai migranti ai bilanci, e che ora si piegano alla retorica della paura. Altro che progresso: siamo tornati alla mentalità degli anni ’30, quando ogni nazione si chiudeva in sé stessa e si preparava al conflitto.
Il contrasto è stridente. Ventotene immaginava un’Europa che abolisse gli eserciti nazionali per creare una forza comune al servizio della pace. Oggi, invece, assistiamo a un revival del militarismo, con Stati che si affannano a comprare F-35 (ripeto, dei cassoni mai visti) e carri armati mentre i cittadini fanno la fila per un posto letto in ospedale. È un tradimento profondo, non solo delle idee di Spinelli e Rossi, ma di quel poco di speranza che l’Europa post-bellica aveva saputo incarnare.
E allora, che fare?
In questa Unione Europea senza valori, ridotta a un mercato senz’anima e a un megafono per le lobby della difesa, ha ancora senso restare? O forse è arrivato il momento di pensare a un’alternativa?
Uscirne, come ha fatto il Regno Unito, potrebbe essere una strada, anche se caotica e piena di incognite. Provocarne l’implosione, magari spingendo per un ritorno a una cooperazione tra Stati sovrani senza il giogo di Bruxelles, potrebbe essere un’altra.
Non è una questione di nostalgia nazionalista, ma di sopravvivenza. Se l’UE non è più capace di rappresentare un ideale, se è solo un carrozzone burocratico che ci trascina verso la militarizzazione e l’austerity, allora forse è tempo di ripensare tutto.
La domanda finale non è retorica: vogliamo davvero un’Europa che sacrifichi i suoi cittadini sull’altare della “sicurezza”? Oppure dobbiamo avere il coraggio di smettere di inseguire un sogno che non esiste più e costruirne uno nuovo?
La risposta non è semplice. Ma una cosa è certa: continuare a fingere che questa sia l’Europa dei diritti e della pace è un lusso che non possiamo più permetterci.
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