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La grande stampa, solitamente assertiva e sentenziosa, è curiosamente balbuziente sul caso Cecilia Sala, ancora detenuta in Iran. Dice e non dice, sembra non voler approfondire più di tanto. Si limita ad annunciare un monito: il caso è complesso.
L’intrigo Cecilia Sala
Le ricostruzioni sono incespicanti, l’intreccio è descritto fumosamente e anche l’evocazione sulla libertà di stampa è proclamata con fare intimidito, come se si sapesse, in fondo, che non c’entra poi molto. Manipolazione sì, ma fino a un certo punto.
In realtà l’affaire Sala, al di là delle comprensibili preoccupazioni umane, assume altri significati politici.
Il primo è che l’Italia è in guerra. Una guerra a noi ancora invisibile perché non calpestiamo ancora macerie, ma che contribuiamo a generare implacabilmente. E ancor più grave è che siamo in guerra per procura, per interesse specifico ed esclusivo del nostro padrone, il quale impone fedeltà e genuflessione da parte di tutte le forze politiche legittimate alla parola.
Il secondo è che in nome di questa guerra la nostra supposta democrazia è definitivamente sospesa, anche nelle sue convenzioni formali. Si può dunque arrestare un cittadino straniero senza capo d’accusa, privarlo dei minimi contatti legali e familiari, obbedendo a un ordine perentorio degli Stati Uniti d’America. Israele, nel suo terrorismo di stato corrente, è avvezzo a questa indecenza.
Il terzo è che le guerre si combattono anche con gli intrighi internazionali dove gli spioni professionisti si sentono a loro agio. Quel mondo adrenalinico e seducente composto da alberghi, appuntamenti intriganti e totale fedeltà alla causa che comporta anche il rischio di una prigione talvolta.
Ora non è semplice conoscere il ruolo specifico della Sala nel caso di specie ed è assolutamente fuorviante ragionare per partito preso. E fa benissimo il governo a reclamare la sua scarcerazione e l’immediato rimpatrio.
Ma è anche vero che spesso i giornali e i giornalisti hanno svolto ruoli ambigui al confine tra reportage e diplomazia. Non si vuole scomodare Pecorelli e il tristemente celebre “OP”, per carità. Però non si venga a raccontare che “Il Foglio” sprigioni sentimenti d’innocenza e il suo ingolfato ex direttore non abbia goduto di corsie preferenziali con Washington o che non sia stato efficiente nel presentarsi come suo spudorato ventriloquo.
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