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Caldo mortale, protocolli vuoti: la vergogna di un paese che lascia morire i suoi lavoratori

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Ogni estate si ripete lo stesso dramma: caldo estremo, morti sul lavoro e risposte inefficaci. Ordinanze regionali e protocolli restano carta straccia. Senza tutele reali, la salute dei lavoratori continua a essere sacrificata in nome del profitto.

Ordinanze, proclami e promesse: intanto si continua a morire sotto il sole

L’ondata di caldo che ha investito l’Italia a partire da giugno non è soltanto un’emergenza climatica, ma un’emergenza sociale e politica. A pagare il prezzo più alto delle temperature estreme sono, ancora una volta, i lavoratori. Operai edili, braccianti agricoli, autisti del trasporto pubblico, personale della logistica: tutti esposti a condizioni di lavoro inaccettabili, spesso senza protezione, acqua, né strumenti adeguati. E nel silenzio generale, si continua a morire.

La risposta istituzionale? Ordinanze regionali e richiami a protocolli “anti-caldo” che sembrano più un tentativo di placare l’opinione pubblica che un reale intervento. L’ultima ordinanza, quella dell’Emilia-Romagna, arriva dopo la morte di un operaio stroncato da un malore durante una gettata di cemento sotto il sole.

Si stabilisce il divieto di lavoro nelle ore più calde nei settori a rischio, ma solo nei giorni da bollino rosso. Misure minime, tardive e in larga parte disattese.

E mentre alcune aziende applicano formalmente queste indicazioni, trovano però il modo di aggirarne lo spirito: tagliano ore e salari, o frammentano la giornata lavorativa in turni spezzati che allungano i tempi di permanenza sul luogo di lavoro senza aumentare la retribuzione. Un paradosso: si lavora meno ma si resta più a lungo, guadagnando di meno.

Nel frattempo, la realtà nei luoghi di lavoro è drammatica: scuolabus privi di aria condizionata, autobus urbani trasformati in forni, uffici pubblici e privati senza impianti di raffrescamento.

In molti casi non viene nemmeno distribuita l’acqua potabile e i dispositivi di protezione individuale sono costruiti con materiali inadeguati alle temperature estreme. Negli appalti pubblici per la ristrutturazione edilizia, il microclima è ignorato, anche quando il finanziamento è statale.

Il sindacato, che dovrebbe rappresentare un argine, si rifugia spesso nella burocrazia. Chiede protocolli, invoca ordinanze, ma evita di pretendere l’unica misura davvero incisiva: la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario durante i mesi più caldi.

Nessun piano concreto per imporre ammortizzatori sociali universali, nessuna mobilitazione per un cambiamento strutturale. E intanto, nei campi colpiti dal caporalato, dove il nero dilaga e i diritti non esistono, si continua a lavorare sotto 40 gradi come se niente fosse.

La crisi climatica non è un’emergenza “occasionale”: è la nuova normalità. Ma il governo e le sue articolazioni locali sembrano incapaci di prendere atto della situazione. Si limitano a rincorrere gli eventi, mentre le statistiche sugli infortuni e sulle morti sul lavoro si gonfiano anno dopo anno.

Servirebbe una legge nazionale, rigida, applicabile a ogni settore. Servirebbero fondi pubblici vincolati a interventi reali. Servirebbe, soprattutto, un riequilibrio nei rapporti di forza tra lavoratori e datori: perché non si può continuare a demandare a chi trae profitto dal lavoro il compito di regolarlo anche in situazioni di rischio estremo.

Il caldo uccide, e continuerà a farlo. L’unico modo per fermarlo non sono le ordinanze di facciata, ma una lotta politica e sindacale che metta al centro la salute e la dignità di chi lavora. Prima del prossimo morto.

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Marquez
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Corsivista, umorista instabile.

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